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Scandinavia, i razzisti venuti dai ghiacci/1

I Camerati del Nord (1924-1995)

Il rapporto tra la Scandinavia ed il nazifascismo fu storicamente complesso. Nonostante esistettero tra le due guerre piccolissimi partiti filo-fascisti in tutte queste nazioni, le uniche formazioni degne di nota furono: il feroce Movimento Lappista finlandese e soprattutto il Nasjonal Samling dello zelante collaborazionista norvegese Vidkun Quisling.

Durante la Guerra, la Svezia rimase ufficialmente neutrale (mantenendo però il Terzo Reich come partner economico principale e permettendo al movimento Svensk Opposition di sostenere Hitler dal 1941), la Norvegia vide il fallimentare governo fantoccio di Quisling, la Finlandia (per recuperare delle terre) collaborò con l’Asse solo all’attacco all’URSS, mentre la Danimarca venne direttamente occupata dalla Germania, non riuscendo il regime hitleriano a farne uno stato collaborazionista.

All’interno delle waffen-ss, durante il secondo conflitto mondiale, vennero anche formate, per iniziativa del governo collaborazionista norvegese, alcune unità di combattenti scandinavi, ma si trattò di strutture minori, impegnate esclusivamente sul fronte est. In tutta la Scandinavia si organizzarono, invece, corposi movimenti di resistenza all’occupazione nazista e, dal dopoguerra, questi Paesi divennero il regno incontrastato di una socialdemocrazia moderata e riformatrice, nota per il suo generoso welfare, per le pionieristiche politiche di genere e per misure di inclusione sociale tra le più avanzate dell’Occidente Capitalistico.

Nei primi anni ’50 la libertaria Svezia divenne anche una centrale organizzativa dell’estremismo neonazista filoatlantico, come ad esempio “l’internazionale nera di Moelmo”, sede del Movimento Sociale Europeo: un alleanza tra partiti neofascisti di diversi Paesi, sorta su spinta del Fuan (la federazione universitaria del MSI) e di alcuni ex-nazisti tedeschi non rassegnati.Negli anni ’60, sempre in funzione anticomunista, nacque anche il Northern European Ring, un network neonazista composto da movimenti di estrema destra nordeuropei (danesi, svedesi, inglesi ed islandesi) e staunitensi.Anche se entrambi questi coordinamenti transnazionali ebbero vita breve, nonostante tuttora non si conosca con precisione la loro “incisività operativa”, si trattò di due esperimenti politici che non diedero in nessun modo fiato alla minoritaria estrema destra scandinava del dopoguerra.

Invece, caduto il Muro, in queste terre si riorganizzarono movimenti neofascisti molto piccoli, anche se estremamente violenti (spesso utilizzarono armi da fuoco ed esplosivi): il nucleo paramilitare semi-clandestino Vikt Ariskt Motstånd (“Resistenza Ariana Bianca”) negli anni ’90 o, nell’ultimo decennio, le bande naziskin del Svenska Motståndsrörelsen (“Movimento di Resistenza Svedese”).

Famosi furono anche terroristi, “lupi solitari”, come John Ausonius (un cecchino razzista che terrorizzò le città svedesi nel biennio 1991-1992) o, più recentemente, il neonazista norvegese Anders Breivik, che il 22 Luglio 2011 uccise con un fucile e con una autobomba settantasette persone ad Oslo e nell’isola di Utoya, mentre era in corso il campeggio della federazione giovanile socialdemocratica.

Una nuova famiglia politica

Tuttavia a metà degli anni ’90, questi paesi divennero il laboratorio politico di un nuovo radicalismo di destra europeo; qui si svilupparono, infatti, alcuni partiti populisti che avrebbero fatto scuola: anti-statalisti (ad eccezione dei Veri Finlandesi), xenofobi, islamofobi, antieuropeisti, slegati da qualsiasi riferimento fascista, nostalgico o antisemita (ad esclusione dei Democratici Svedesi). Rapidamente, per effetto dei successi di queste formazioni, il quadro politico dei paesi scandinavi, negli anni 2000, venne rivoluzionato ed un po’ ovunque cessò il regno incontrastato delle sinistre socialdemocratiche. Queste nuove destre divennero infatti rapidamente partiti di area governativa o pezzi fondamentali delle opposizioni parlamentari.

Una fotografia dell’ultimo decennio (2005-2015) ci mostra, infatti, che: il Partito del Progresso (oggi al governo) è stato per anni la seconda forza della Norvegia con una media del 20,4% dei voti, il Partito del Popolo Danese ha raggiunto il 21,1% (sostenendo o partecipando anche ad esecutivi liberali dal 2001 al 2009), i Veri Finlandesi dal 2015 si sono attestati al 18% (anch’essi oggi al governo), mentre i Democratici Svedesi sono passati dal 0,4 del 1998 al 12,9% del 2014 (terzo partito nel Parlamento per numero di seggi).

Un unico Fronte del Nord

Il cavallo di battaglia di tutte queste formazioni è da sempre la richiesta di un welfare per soli autoctoni, mentre, dall’11 settembre in poi, il loro tradizionale razzismo ha assunto l’isterico colore dell’islamofobia.I carismatici leader di questi movimenti sono rispettabili professionisti, attempati, spesso donne, o personaggi decisamente anticonformisti, mentre (ad eccezione del caso finlandese) i loro elettori vengono dalla classe media.Si tratta dunque di fenomeni figli di uno “sciovinismo del benessere”, che rispecchia un vero e proprio lato oscuro di società aperte, inclusive e avanzate come quelle nordeuropee.In linea con tutto questo, lo stile comunicativo di questa nuova famiglia della destra radicale è estremamente fresco, sobrio, pacato e rassicurante, nonostante la capacità di utilizzare/suscitare allarme sociale, ed egoismo fiscale (ricordiamo che il generosissimo modello di stato sociale scandinavo prevede una tassazione molto elevata) Nei programmi di questi partiti troviamo inoltre posizioni decisamente laiche, molto rispettose dei diritti individuali e della parità di genere.In questo senso queste nuove forze sono figlie dello “Shock da Globalizzazione”, dell’egemonia del pensiero neoliberista, dello “scontro di civiltà” degli anni 2000 e, ovviamente, della conseguente crisi del modello socialdemocratico degli anni ’90.

Nonostante siano tutte formazioni radicalmente anti-UE, hanno sempre fatto delle Elezioni Europee un’ occasione di propaganda e di coordinamento transanazionale: a livello dell’Unione, infatti, questi partiti sono stati parte di gruppi parlamentari euroscettici, nazionalisti, liberisti o xenofobi, anche se quasi mai hanno stretto legami con gruppi neofascisti.

Più nel dettaglio: i danesi ed i finlandesi hanno generalmente fatto squadra con La Lega Nord bossiana o L’Ukip di Nigel Farage, mentre gli svedesi, pur venendo da un passato in odore di neonazismo, dopo varie alleanze, sono dal 2014 nello stesso raggruppamento europeo del Movimento 5 Stelle e di alcuni ex-Front National francesi.

L’articolo è tratto dalla serie Viaggio nell’estrema destra europea, un progetto dell’Anpi – Associazione nazionale partigiani d’Italia, curato dal ricercatore storico e collaboratore dell’Università Statale di Milano Elia Rosati.

  • Autore articolo
    Elia Rosati
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    Gran Bretagna e Germania, i grandi malati d'Europa. Il primo ministro britannico Starmer e il cancelliere tedesco Merz sono entrambi proiettati in una rincorsa della destra estrema. Il laburista britannico Starmer, due settimane fa: «restauriamo ordine e controllo», titolo di un documento presentato alla Camera dei Comuni. Il democristiano tedesco Merz: ci vogliono «controlli ai confini e respingimenti» perchè «l’immigrazione ha un impatto sul paesaggio urbano». Proprio così. Germania e Gran Bretagna, due potenze economiche mondiali: la Germania (80 milioni di abitanti) con il terzo pil del mondo (dopo Stati Uniti e Cina); il Regno Unito (con 60 milioni di abitanti) con il sesto pil mondiale (dopo la Germania c’è il Giappone e l’India e poi il Regno Unito). La “malattia” (la rincorsa ad essere a volte più a destra delle destre) rischia di cambiare i connotati a tradizioni politiche europee centenarie: come il laburismo britannico, il popolarismo democristiano tedesco insieme alla socialdemocrazia, sempre in Germania. Pesa, inoltre, un discorso pubblico sempre più contaminato da un lessico guerresco. Che danni può provocare questa “malattia” in due paesi fondamentali del continente europeo? Pubblica ha ospitato la storica Marzia Maccaferri (Queen Mary, University of London) e il giornalista Michael Braun (corrispondente da Roma del berlinese Tageszeitung).

    Pubblica - 03-12-2025

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    Finanza e Industria, ecco chi ci porta alla guerra

    Politici, industriali e finanzieri sono concordi nel sostenere la strada del riarmo e della militarizzazione europea: per i finanzieri si tratta di far fruttare i propri fondi rapidamente e in maniera sicura, per gli industriali idem, con fortissime iniezioni di denaro pubblico, non a caso anche quest’anno hanno fatto il record di vendite come registra il Sipri di Stoccolma il più autorevole istituto di ricerca sulla spesa militare nel mondo. Il problema, spiega Francesco Vignarca, portavoce della Rete Pace Disarmo, ricercatore e analista (tra i curatori del libro Europa a mano armata curato con Sbilanciamoci) è che così vince il discorso di guerra. Banalizzante, propagandistico e pericoloso perché sequestra la democrazia: “Il complesso militare industriale ha un pensiero medio lungo strategico. Stanno già intervenendo per togliere le leggi sulla limitazione alla vendita di armi, perché sanno che dovranno vendere questa sovraproduzione da qualche parte, così come fanno entrare capitali esteri nella nostra industria, come i sauditi in Leonardo, perché non siamo noi gli acquirenti di queste armi”. Ascolta l'intervista di Cinzia Poli e Claudio Jampaglia.

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    A come Asia di mercoledì 03/12/2025

    A cura di Diana Santini

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