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Sant’Anna Arresi, un festival jazz da salvaguardare

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“Per la Sardegna di quarant’anni fa il jazz era come internet oggi, qualcosa che ti metteva in rapporto col mondo: e il festival era quasi un pretesto, che ci permetteva di parlare nuovi linguaggi”. In un incontro con la stampa convocato l’ultimo dei dieci giorni della 34esima edizione del festival, l’8 settembre, Basilio Sulis, direttore artistico di Ai confini tra Sardegna e Jazz”, la rassegna di Sant’Anna Arresi, torna alle ragioni di fondo che hanno portato alla metà degli anni ottanta ad organizzare un festival di jazz orientato all’avanguardia in “un angolo di periferia dell’impero” – per usare un’espressione abituale di Sulis – come il Sulcis. Era un progetto molto politico, e non solo per le valenze di cui era portatore il jazz che veniva proposto: l’idea era anche che attraverso il festival si potesse agire sul contesto, modificarlo positivamente. Basilio Sulis – ma per centinaia di musicisti americani ed europei passati da Sant’Anna Arresi, che in generale nemmeno conoscono il suo cognome, è semplicemente Basilio – non si nasconde che c’è un grosso scarto fra quello che ci si prefiggeva e come stanno le cose oggi. Tanto da interrogarsi addirittura sulla capacità del jazz di esprimere ancora l’esistente e da chiedersi persino se il festival abbia ancora una funzione.

 

Certo quarant’anni fa, sull’onda degli anni sessanta-settanta, e magari con un po’ di ritardo comprensibile nella “periferia dell’impero”, si poteva caricare ancora la musica, e non solo il jazz, di grandi attese. E “Ai confini tra Sardegna e Jazz” non può farsi una colpa se le cose hanno preso in generale una piega diversa da quella sperata. Quella poi sull’attitudine del jazz ad interpretare – criticamente – il presente è una bella domanda: ma, realisticamente, il jazz – per lo meno il jazz e la musica improvvisata che Sant’Anna Arresi propone, e non il jazz consolatorio ed espressivamente fiacco che va per la maggiore in tante rassegne – è ancora indispensabile, tanto in quanto – per dirla così – prefigurazione, allusione, ad un mondo diverso e a diversi rapporti tra gli uomini, che come elemento di diversità estetica rispetto ad altre forme di musica. E in giro ci sono molte scene jazzistico/improvvisative estremamente vitali ma che sono carenti di opportunità di farsi ascoltare dal vivo. Da questo punto di vista Sant’Anna Arresi è diventata un riferimento prezioso, e ancora più importante da un certo momento in poi, una ventina d’anni fa, mentre il panorama dei festival del jazz in Italia manifestava segni di ulteriore involuzione. Svolgere questa funzione non è affatto poco. Certo bisogna svolgerla al meglio, e l’edizione di quest’anno ha mostrato che per il festival è venuto il momento di fare il tagliando.

 

Non che di concerti notevoli non ce ne siano stati: le appassionanti esibizioni, due per ciascuna, delle formazioni più ampie, la Burnt Sugar The Arkestra Chamber e la Exploding Star Orchestra, i due eccellenti concerti, in solo e in trio, del pianista Matthew Shipp, il coinvolgente set del vocalist Dwight Trible e del percussionista Kahil El’Zabar. Abbastanza per confermare l’eccezionalità di “Ai confini tra Sardegna e Jazz” nel panorama dei festival che in Italia al jazz si richiamano, e un ruolo di paladino del jazz più avanzato, per il quale nel nostro paese ci sono pochi altri riferimenti sicuri (in particolare il Centro d’Arte di Padova e Area Sismica di Forlì, con la loro programmazione distribuita lungo buona parte dell’anno). Ma alcuni dei più interessanti concerti in cartellone sono saltati, e delle spiacevoli defezioni dell’ultimo momento c’erano state anche l’anno scorso: degli incidenti di percorso possono sempre verificarsi, ma non devono diventare la prassi, e il festival dovrà assicurarsi maggiori garanzie di poter rispettare il programma annunciato.

 

Che poi l’unica impennata di presenze si sia avuta con il concerto di Giovanni Allevi è stato un po’ avvilente: il pianista cercava un’altra data sarda oltre a quella al Dromos Festival e si è proposto, e “Ai confini tra Sardegna e Jazz” ha colto l’occasione, probabilmente con l’idea di sparigliare – una tantum – anche appunto in termini di pubblico. Non è mancato chi si è scandalizzato, e ha visto in questa scelta i prodromi di una degenerazione degli orientamenti del festival. Ma se “Ai confini tra Sardegna e Jazz” avesse voluto commercializzarsi non avrebbe aspettato il 2019, e non è nella piazza del Nuraghe ma in altri festival che nella loro intestazione si fregiano del termine “jazz” che in questi anni si sono ascoltati Gino Paoli, Raphael Gualazzi, Massimo Ranieri e Fiorella Mannoia: festival dove non si ascolteranno mai Mats Gustafsson o Tyshawn Sorey; mentre altri festival non mettono in cartellone musica leggera ma fanno scelte più piacione o comunque più prudenti di “Ai confini tra Sardegna e Jazz”. Come era prevedibile, Allevi, corpo estraneo in un festival come quello di Sant’Anna Arresi, non ha nemmeno prodotto un rimescolamento di pubblico: così come sono arrivati, i suoi fan alla fine della sua esibizione se ne sono andati senza nemmeno seguire la seconda parte della serata (Sardinia Instabile Orchestra), e certo non sono tornati le sere successive a sentire la Exploding di Rob Mazurek. In compenso la nutrita presenza di spettatori per Allevi ha reso per contrasto più evidente il problema di pubblico che il festival ha per le musiche che rappresentano invece proprio la sua “ragione sociale”.

 

Questo problema dipende dal tipo di musiche che “Ai confini tra Sardegna e Jazz” propone, dal fatto che sono musiche “ostiche”? No, perché altre rassegne europee affini per indirizzi musicali – per esempio tre rassegne che si tengono più o meno nello stesso periodo come Mulhouse (Francia), Saalfelden (Austria) e Willisau (Svizzera) – richiamano appassionati anche da altri paesi e possono contare su un pubblico che è stabilmente più consistente: e comunque non si sta parlando di numeri enormi. Da dove viene allora il problema? Si direbbe da un deficit di rapporto con l’ambito locale, e da un deficit di comunicazione, che tocchi in particolare gli appassionati italiani e stranieri che sono interessati al jazz di ricerca, e che frequentano le rassegne europee di ispirazione analoga a “Ai confini tra Sardegna e Jazz”. Non da oggi il festival lamenta la difficoltà di rapporto con l’amministrazione locale, rapporto che è essenziale per la relazione con il contesto oltre che per la soluzione di problemi logistici e tecnici del festival, e proprio questo rapporto è stato al centro dell’incontro con la stampa: a cui ha deciso di intervenire, manifestando disponibilità, la neosindaca (la nuova amministrazione è insediata da due mesi, nell’ultimo anno il comune di Sant’Anna Arresi era commissariato), e c’è da augurarsi che qualcosa cambi.

 

Sant’Anna Arresi deve essere orgogliosa di questo festival, e il comune deve sostenerlo. Tuttavia il problema di un pubblico adeguato al valore di questa manifestazione non può, e non deve, risolversi solo sul piano locale, perché “Ai confini tra Sardegna e Jazz” ha da svolgere un ruolo nazionale e internazionale. Non sfugge che arrivare in macchina a Mulhouse, Willisau o Saalfelden da – per dire – Lione, Milano o Monaco di Baviera, costa meno che dagli stessi posti arrivare in aereo o nave nel Sulcis. Ma non sfugge neppure che Sant’Anna Arresi ha un mare, un clima, e tradizioni enogastronomiche che Mulhouse, Willisau e Saalfelden non si sognano nemmeno.
Insomma c’è qualche ragionamento da fare, e qualche misura da prendere. Ma c’è già come base di partenza quello che più conta, e cioè un festival con una tradizione, una identità e una indipendenza di scelte più uniche che rare.

 

Qui una parte del solo di Matthew Shipp sulla spiagga di Is Solinas il 6 settembre (al tramonto, e – come si capirà dal sonoro – con forte vento).

 

  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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