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Sanremo, il Festival che celebra se stesso

Verso la fine dell’ultima serata della sessantaseiesima edizione del Festival di Sanremo, la cosiddetta finalissima, c’è stato un momento illuminante, in cui tutti i pezzi del mosaico sono andati al loro posto. Era già orribilmente tardi, probabilmente buona parte del pubblico televisivo aveva già, saggiamente, deciso di spegnere o di cambiare canale. Ma Carlo Conti era ancora nel bel mezzo di una liturgia interminabile, in particolare quella dei ringraziamenti.

Dopo aver passato in rassegna pressoché chiunque avesse avuto a che fare con questa edizione del Festival, ecco il colpo di genio (si fa, molto, per dire): “ringraziamo Pippo Baudo – ha detto il presentatore toscano con aria mistica – colui che ha inventato il Festival così come lo facciamo ancora oggi”. Ecco in poche parole l’unico senso che oggi ha il Festival di Sanremo: ripetersi identico anno dopo anno.

Come un messale da tramandarsi immutato, quello che un tempo era il Festival che doveva celebrare la canzone italiana da ormai molti anni si è trasformato in una kermesse capace solo di celebrare se stessa, tra rimandi, ricordi, omaggi.

“Perché Sanremo è Sanremo”: quello slogan decisamente abusato è effettivamente l’unica cosa sensata che si possa dire dell’appuntamento nazional-popolare per eccellenza. Altro Sanremo non sa e non vuole fare, se non riproporsi ogni volta con la medesima formula. E non è certo la parte della competizione musicale a impedire qualsiasi forma di innovazione, di sorpresa: ciò che è e deve essere rituale è tutto quello che succede attorno alle canzoni e ai cantanti in gara.

Il tono del presentatore, la regia, la scenografia, la valletta un po’ incapace (quest’anno interpretata da Gabriel Garko), i numeri dei comici, le finte polemiche sulle votazioni, gli ospiti, italiani o internazionali che siano. Sembra che l’unico mandato che ricevano gli autori del programma sia di non avere per nessuna ragione un’idea inedita.

Quest’anno forse lo spirito autocelebrativo si è notato ancor più del solito: Carlo Conti è certamente perfetto per ripetere all’infinito lo stesso copione, essendo fondamentalmente un presentatore fatto di niente, un rimescolamento senza personalità di esempi altrui. Gli ospiti musicali italiani non hanno fatto che citare se stessi, ricordando “quella volta che”, ricantando medley dei successi del passato. Aldo, Giovanni e Giacomo hanno festeggiato il tempo che fu riproponendo un vecchio sketch, con tutti gli imbarazzi del caso. Virginia Raffaele, per quanto fosse una delle “cose” più vive su quel palco, ha semplicemente fatto rivivere quel topos della tv italiana che è la figura dell’imitatore.

Anche le più o meno spontanee dimostrazioni di solidarietà con la battaglia per l’approvazione di una legge che riconosca le unioni civili si sono perfettamente inserite all’interno della liturgia sanremese, dimostrandone peraltro la solidità. Su quel palco è davvero difficile uscire da un canovaccio talmente riaffermato, edizione dopo edizione, da essere quasi inscalfibile.

Poi c’erano anche le canzoni, certo. A parte il fatto che nessuna persona sana di mente cercherebbe della gran qualità musicale tra i brani in gara a Sanremo, quest’anno la rassegna è stata perfino sotto le aspettative giustamente basse. Un paio di pezzi che avranno successo nelle radio commerciali (Rocco Hunt, Lorenzo Fragola), qualche blando colpo di coda da parte di alcune vecchie glorie (Patty Pravo, Enrico Ruggeri, gli stessi vincitori Stadio), e un abisso di noia.

Fedele alla tradizione anche la presenza di almeno un gruppo che esca dal novero del pop più commerciale: è toccato ai Bluvertigo il compito di incarnare questo ruolo (compreso il piazzamento pessimo nella classifica finale), ma parliamo comunque di una band ormai anch’essa impegnata nell’autocelebrarsi, nel ricordare il passato senza alcuna velleità di vero rilancio.

Rituale, infine, anche il pensiero di noi che lo guardiamo, criticamente o ironicamente: per quanto ci piacerebbe molto poter vedere qualcosa di diverso, siamo finiti davanti alla televisione anche questa volta. E sappiamo bene di correre il rischio di ripeterci pure nel 2017.

  • Autore articolo
    Niccolò Vecchia
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    Errando per Antiche Vie è una grande azione performativa in cui artisti e pubblico percorrono a piedi la distanza che separa Cortina e Milano, tra il 5 e il 16 dicembre, a un mese dall’inizio delle Olimpiadi, per raccontare un territorio incredibile, contraddittorio che per la prima volta viene messo in luce dalle Olimpiadi. Un cammino lungo oltre 250 km, spettacoli teatrali e di danza, letture, pasti di comunità, incontri e dibattiti: un racconto della montagna fatto di sostenibilità, di protagonismo dei territori alpini e prealpini, di chi decide di vivere e lavorare in quota e nei territori periferici, al di là della spettacolarizzazione del momento olimpico. Michele Losi di Campsirago Residenza ha raccontato a Cult tutto il percorso. L'intervista di Ira Rubini.

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