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Roberto Saviano: “Gridate forte ciò che non sopportate più”

Roberto Saviano

Roberto Saviano è uscito pochi giorni fa col suo nuovo lavoro, “Gridalo“, edito da Bompiani, un libro che attraverso il racconto di molte storie ci esorta a non tacere davanti all’ingiustizia e al malaffare, e a non voltarci dall’altra parte quando le cose non vanno come dovrebbero. Oggi lo scrittore ci ha raccontato come è nato questo libro e ha commentato con noi alcune vicende di stretta attualità.

L’intervista di Lorenza Ghidini e Claudio Jampaglia a Prisma.

Il tuo nuovo libro, “Gridalo”, nasce da una grande rabbia che hai dentro di te. Perché?

Perché sono stanco, credo come molti altri, di vivere in un Mondo in cui ci tocca solo scegliere il male minore e in cui dobbiamo accettare che le cose vanno in questo modo. Dobbiamo accettare che in fondo ci sta andando bene e che in qualche modo conviene cambiare noi stessi, fare una rivoluzione in noi stessi, provare a non vivere tensioni perché cambiare il fuori è molto più difficile, temerario, forse persino poco saggio. Questo è un libro che mi ha accompagnato per anni, l’ho tenuto in una parte di me profondissima, quella più inaccessibile. Basta anche nascondersi dietro buona educazione e correttezza, è naturale che l’ingaggio non può essere violento, rischierebbe di diventare autoritario e quindi nemico della giustizia, ma non possiamo neanche sempre pensare che il buon discorso sia sufficiente, c’è molto altro. In questo molto altro c’è il gridare ciò che non sopportiamo più, il gridare la possibilità di cambiare, il gridare la possibilità di pensare a un altro mondo. È molto più facile, lo ripeto spessissimo, pensare di colonizzare un altro pianeta che cambiare questa economia. Ma com’è possibile che siamo finiti così? Com’è possibile che ci sembra sempre, anche quando si va a votare, o quando vince il Presidente americano, dire “vabbè, non è quello in cui credo, non è il progetto che m’immaginavo, però sempre meglio di“. È esattamente la situazione in cui ci troviamo ora, siamo finiti in questa situazione nella politica italiana, incredibilmente incompetente, perché in fondo “è meglio comunque degli altri“. In “Gridalo” quello che cerco di dire al mio lettore e alla mia lettrice è basta al negoziare sui valori fondamentali. Se serve questa diplomazia in politica è tutto molto giusto, purché non comprometta gli elementi in cui credi, e parlo proprio di elementi chimici della società: condivisione, solidarietà, possibilità di non vivere in una società di incomprensione perenne, in cui ti senti brutto, povero, sempre con gli altri che ti vogliono fregare, o tu che devi fregare gli altri per avere una posizione. È veramente il mio grido.

La rabbia in questo periodo è un sentimento molto diffuso. La fatica di andare avanti attraversando la pandemia e l’impoverimento è molto diffusa e trasversale. A chi si rivolge questo libro?

La rabbia, mi rendo conto, è un sentimento ambiguo. Non si rivolge per definizione alla giustizia, non è che provarla ti faccia star bene, ma io accolgo la sfida, tento di poter sostituire il grido del rancore con il grido della nascita, della giustizia, dell’orgasmo. Mi rivolgo a chi crede di essere solo con questa rabbia e che magari si vergogna anche un po’ di sentirsi impotente e pensa che ormai sia difficile mettersi da soli contro situazioni così complicate in ufficio, a casa o nella società e quando guarda la televisione, il web, tutto gli sembra un’infinita merda. Più che reagire con rancore, che spesso è il rifugio della disperazione, magari si risponde chiudendosi. A quella persona dico “non sei solo”. Chiamo a testimoni tutta una serie di persone che nella storia hanno preso posizione: per esempio Giordano Bruno, che non poté abiurare perché avrebbe significato la fine della verità etica e civile in cui credeva, mentre Galileo poté abiurare, perché nel momento in cui nega il movimento della Terra, la Terra continua a muoversi, tanto non cambia nulla. Bruno non può: nel momento in cui, di fronte al tribunale, nega la sua filosofia, che benché scenda dall’osservazione della natura è una scelta etica e civile, muore. Chiamo a testimoniare Robert Capa, che ci dice che la foto migliore è la foto leggermente fuori fuoco, perché una completamente a fuoco è una foto dove ti sei messo alla giusta distanza, hai il sedere al caldo e sei in una situazione tranquilla. E allora non mi importa, perché la foto non mi sta raccontando quello che tu stai vedendo. Invito le mie lettrici e i miei lettori ad avere una vita fuori fuoco, vicina alle cose, partigiana: non bisogna temere di scegliere e bisogna sapere ovviamente cosa si paga. Spesso mi è successo, con risultato più fortunato, di vivere situazioni così drammatiche, come i siti di retroscena, il merdume di certo giornalismo populista, la stampa che non è stampa, è ricatto, feccia, che vuole soltanto dossierare, ricattare. È il racconto di com’è stato fatto a Jean Seberg, com’è stato fatto a Martin Luther King. Immaginiamo un King a pezzi e colpito solo dai proiettili, ma in realtà ci furono decenni di delegittimazione. Questo è quello che vive chiunque decida di prendere posizione; a seconda, poi, di come ha un impatto sulla società, maggiore sarà la macchina del fango che subirà, e in “Gridalo” provo a raccontarlo.

Qui in Lombardia vediamo tutti i giorni, con tutti gli ascoltatori che ci scrivono, una grandissima rabbia per come sono andate le cose e per com’è stata gestita l’epidemia nella regione. Eppure è così difficile far sì che un grido serva a qualcosa, tanto che il più delle volte ci si rinuncia e ci si chiude nella propria rabbia. Le storie che racconti sono storie di chi è riuscito a farsi sentire, ma non è così per tutti. Cosa diresti a chi teme che cercare di farsi sentire non porti a cambiare le cose?

Lo capisco ovviamente. E infatti il grido è spesso di solitudine. Porto in rassegna anche diversi aforismi; uno di quelli che mi piace di più è di Reinaldo Arenas, lo scrittore cubano finito nelle carceri di Castro perché omosessuale. Lui dice “grido quindi sono“, affermo me stesso. Per quanto possa sembrare paradossale, il tentativo di non negoziare più con la realtà è anche un modo per riconoscere sé stessi, smettere di pensarsi irrilevanti, le individualità sono fondamentali. James Baldwin, grande scrittore afroamericano e probabilmente il mio preferito tra gli scrittori americani, dice, parlando dei militanti afroamericani, “noi cosa possiamo fare di fronte alle accuse di stupro che non abbiamo fatto, di fronte ad arresti per rapine che non abbiamo fatto, di fronte a una persecuzione su cose che non ci sogniamo neanche di fare, ma che subiamo solo perché stiamo prendendo posizione?“. Baldwin risponde “innanzitutto non ci crederemo, porteremo prove, convinceremo persone. Questo ci farà vincere? Chi lo sa, non sarà facile e non sarà veloce, ma il solo agire in questa direzione, il solo sentire quello che stiamo sentendo e condividere, ci farà già vivere in modo diverso“. Le sue parole mi hanno ispirato moltissimo, in qualche modo già a condividere e sentire che non si è complice, dentro delle contraddizioni perché è ovvio che bisogna sopravvivere, bisogna guadagnare, bisogna mantenersi. So benissimo che ci sono tutta una serie di compromessi, ma purché il compromesso non comprometta la parte più profonda di noi e non ci faccia sentire soli come in questo momento ci sentiamo. La sensazione è che tutti ci vogliano fregare, anche tra gli amici, sul posto di lavoro, forse persino in famiglia. Vince chi frega l’altro. Ma questo modo insopportabile di vivere, davvero lo vogliamo sempre e soltanto subire? Allora il grido, anche se non dovesse ascoltarlo nessuno (e non è così), anche se ti sembra apparentemente che non conti nulla, conta eccome. A Genova, nella città del G8, di fronte agli operai che avevano subito una serrata, il blocco degli stipendi in pandemia e che erano corsi tesi, ma non armati, in prefettura a gridare che volevano i loro soldi perché è uno sciopero legittimo, i poliziotti, senza un ordine, si sono tolti il casco: quello è un gesto individuale. Probabilmente uno di loro poteva pensare “ma che senso ha?”. Togliere il casco è stato come dire “stiamo dalla stessa parte, presidiamo la legalità però nessuno è contro di voi“. Quel gesto l’ho trovato particolarmente romantico, non solo perché sono scortato dai carabinieri e vivo ormai da 15 anni circondato da Forze dell’ordine. Quel gesto è stato bellissimo, è stato un insieme di individualità che ha cambiato un rapporto, ci si aspettava manganellate e invece c’è stata accoglienza. Non credo sia mai inutile.

De Luca ti ha invitato a un dibattito, chiamandoti “camorrologo di professione”. Cosa rispondi al governatore?

De Luca è letteralmente un cabarettista. D’altronde è così richiesto perché è un signore che fa battute, sceneggiate che fanno ridere anche me, confesso. Non riesce a starmi antipatico nonostante sia un politico molto ambiguo, ma non solo per la sua politica di clientele, che piazza i familiari ovunque, tipica da podestà meridionale. Conosco bene i politici della mia terra. Quello che stupisce è la capacità manipolatoria di De Luca: a dire “chiudiamo tutto” viene accolto come un politico che sta proteggendo e vuole il bene dei suoi. Ma così è facile, così il Mondo poteva essere salvato velocemente. Ma l’economia? I salari, i malati, la situazione ospedaliera? “Non ci sono infermieri, siamo in una situazione critica” e perché non hai fatto i bandi, perché non hai assunto più persone? Lui vi dirà che l’ha fatto, ma veramente l’ha fatto? La situazione della sanità campana non è certo soltanto responsabilità di De Luca, ma è un inferno, e infatti la situazione economica e sociale campana è al collasso. Questo non è niente rispetto a quello che sta per succedere. Frank Snowden, grandissimo storico delle epidemie, ha usato nel suo libro “Epidemie e società” un paradigma che ho fatto mio: “Mai nella storia le epidemie hanno creato emergenze e crisi, hanno solo radicalizzato le crisi e le emergenze che già c’erano“. Questo è esattamente vero: vediamo con la situazione tedesca e scandinava che non è che non ci siano morti, ma la radicalizzazione di un problema le ha trovate pronte e persino una situazione come quella francese, che è terribilmente allarmante, non ha quello che sta accadendo in Italia, come l’impossibilità di telefonare al proprio medico di base, agli ospedali. Io ricevo decine di mail di persone, che non conosco personalmente, che mi chiedono aiuto, mi dicono “non sappiamo se è vivo, perché la domenica non rispondono“. Politici come De Luca creano il consenso su questa ambiguità. Lo vedi essere colui che è in grado di fronteggiare questa situazione, e invece furbescamente sposta tutto sul governo centrale e sull’individuo: non andare a fare la passeggiata, a scuola, ma che c’entra? Tutto questo va benissimo, ma dentro a un’organizzazione, a una gestione. La Campania è un territorio dove si vive di lavoro nero, già questo è un elemento che dovrebbe far pensare. Cosa chiudi senza alcuna compensazione? È ovvio che poi ci siano queste manifestazioni che tu, governatore, liquidi banalmente come “di camorra” o cose del genere. Avete notato che quando si parla della situazione nei pronto soccorsi, di diverse regioni e di diverse città, se andate informalmente vi viene detto che sta andando tutto male, e quando vengono chiamati dalle agenzie e in televisione, invece, va tutto bene? In qualche modo, il terrore che fanno il governo e un’opposizione bestiale – che senza alcuna autorevolezza ha usato per mesi il negazionismo e ha cercato di incolpare i migranti d’essere untori – sembra la Cina: i pronto soccorsi stanno patendo pressioni enormi, però poi non se la sentono di criticare la situazione perché può solo peggiorare, temono delle ritorsioni, che credo che siano anche cose legittime, però il clima è questo.

Un ascoltatore dice che “tutti gli esempi citati sono azioni di individui pensanti e non gridanti. La comunità può agire solo come comunità d’idee“.

Non condivido questa contraddizione. Capisco cosa vuole dire, ma le grida a cui faccio riferimento sono di disperazione, della ricerca della giustizia, il silenzio che diventa colpa e noi spesso copriamo questo silenzio con la buona maniera, con lo spazio della buona educazione. Tutte cose assolutamente corrette, ma non sufficienti. Ma perché, al tavolo del dibattito, bisogna spesso invitare feccia vera, che non ha fatto giornalismo ma titoli razzisti e omofobici? Ma perché devo dare quota a tutti, anche alla merda? Non c’entra niente essere di destra o conservatori, c’è un modo democratico e autorevole di esserlo: nel mio libro cito una serie infinita di autori di destra anche intoccabili, come Carl Schmitt, che è la mia anidride carbonica. Non abbiamo bisogno solo dell’ossigeno. Per quanto mi riguarda bisogna anche rompere con questa insopportabile ipocrisia, che intorno al tavolo, perché democratico, si debba portare esponenti di questa spazzatura quotidiana.

Un’altra ascoltatrice chiede che sensazione tu abbia quando c’è qualche negazionista che grida, cercando di insinuarsi in ben altre riflessioni con le sue.

Il negazionismo fa davvero spavento. Quando, per esempio, ho ricevuto il video del Cardarelli, subito delle persone mi han detto che fosse finto. E non è che fossero negazioniste queste persone, semplicemente sono oppresse da una quantità infinita di informazioni contrastanti ed è diventato difficilissimo. Studiare tutte le teorie complottiste è, sul piano scientifico, affascinantissimo: in passato era molto difficile ritrovarsi. I terrapiattisti ci son sempre stati, così come quelli contro i vaccini, ma era difficile ritrovarsi. Oggi è facilissimo, apri una pagina Facebook e tutti quelli che potrebbero pensarla come te li trovi subito, e in questo percorso immediato si perde tantissima parte di formazione. Molte di queste persone sono solo sole, disperate, spesso con problemi di stabilità psicologica, quindi quanto è facile trovare una risposta che ti semplifica la complessità della realtà? Dall’altra parte c’è una situazione spaventosa: guardate la battaglia dei virologi. Il mondo che dovrebbe darti informazioni esclusivamente sul livello di conoscenza a si è giunti sul COVID-10 inizia a fare opinioni. Non ascolti più, hai paura, sospetto, e credi a quello che te la spara più grossa e più semplice. Ci tengo molto a ribadire che nel momento in cui ci trinceriamo dentro alla possibilità di potercela fare rendendoci accomodanti verso la realtà, che capisco essere una scelta, quella realtà noi non la cambiamo. Invece bisogna affermare questa visione di una possibilità di un mondo altro, che oggi è impensabile: al massimo si può pensare di evitare l’autoritarismo, di cullarsi dietro a una negoziazione che non ci faccia cadere in basso ma tutti quanti ci accontentiamo. Forse è il momento di non accontentarsi più.

Foto di Maki Galimberti

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    “Jazz in un giorno d’estate”: il titolo ricalca quello di un famoso film sul jazz girato al Newport Jazz Festival nel luglio del ’58. “Jazz in un giorno d’estate” propone grandi momenti e grandi protagonisti delle estati del jazz, in particolare facendo ascoltare jazz immortalato nel corso di festival che hanno fatto la storia di questa musica. Dopo avere negli anni scorsi ripercorso le prime edizioni dei pionieristici festival americani di Newport, nato nel '54, e di Monterey, nato nel '58, "Jazz in un giorno d'estate" rende omaggio al Montreux Jazz Festival, la manifestazione europea dedicata al jazz che più di ogni altra è riuscita a rivaleggiare, anche come fucina di grandi album dal vivo, con i maggiori festival d'oltre Atlantico. Decollato nel giugno del '67 nella rinomata località di villeggiatura sulle rive del lago di Ginevra, e da allora tornato ogni anno con puntualità svizzera, il Montreux Jazz Festival è arrivato nel 2017 alla sua cinquantunesima edizione.

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