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Riforme di mercato, ma soprattutto stabilità

«Il governo manterrà la ciotola di riso» e creerà perfino «nuove ciotole di riso» per i lavoratori. È questo forse il passaggio più interessante della conferenza stampa di fine «Lianghui» (“doppia sessione dei parlamenti”) tenuta dal premier cinese Li Keqiang, che ha cercato di tranquillizzare la comunità internazionale sulla buona salute del Paese. Il numero due della leadership ha riconosciuto che l’economia sta vivendo pressioni al ribasso, ma si è detto convinto che la Cina manterrà la crescita del 6,5 per cento prevista per il prossimo quinquennio.

Come? Li ha riconosciuto che «la produttività economica è frenata dalle troppe interferenze inutili della politica» e intende perciò liberare le forze ctonie del mercato. Ha spiegato che, a differenza di Giappone e Stati Uniti, la Cina non adotterà politiche monetarie espansive per sostenere la crescita, perché «ha fatto una scelta più dura ma più sostenibile»: riforme strutturali sul lato dell’offerta «come la semplificazione delle procedure normative e il taglio delle tasse».

Sono frasi già ripetute più volte dai leader cinesi negli ultimi anni. Di liberare le forze del mercato, di allocare meglio le risorse e di fare un passo indietro nella gestione centralizzata dell’economia da parte dello Stato si parla con insistenza dal terzo Plenum – quello delle “grandi riforme” – che si tenne nel novembre 2013. In Cina, le svolte prima si annunciano, poi si avviano con tutto l’apparato tecnico-normativo necessario (leggi, finanziamenti, materiale umano), mantenendo sempre ben fermo il metodo sperimentale che a volte porta a lasciar cadere nel nulla proclami già fatti: mo shitou guo he, attraversare il fiume tastando le pietre, andare con cautela, diremmo noi. Il bene supremo resta la stabilità e l’integrità del Paese, non l’applicazione di qualche ideologia d’importazione, come quella neoliberista. È questa un po’ anche la storia delle «riforme di mercato» che ancora mancano e fanno digrignare i denti agli inviati dei media corporate atlantici.

Se per esempio «più mercato meno Stato» è la filosofia che si applicherà al grande processo di ristrutturazione-dismissione dell’industria pesante, ci vorrà invece tanto, tantissimo Stato per gestirne le ricadute. Non si parla qui solo dell’apparato repressivo messo in bella mostra proprio nei giorni del Lianghui per fare fronte alle grandi proteste delle comunità operaie che un po’ dappertutto – dall’Heilongjiang allo Shanxi – chiedono salari mai corrisposti e un futuro occupazionale.Si parla soprattutto del pacchetto da 100 miliardi di yuan (oltre 13 miliardi di euro) che proprio Li ha promesso per riqualificare e dare nuovo impiego agli «esuberi», calcolati nell’ordine dei 5-6 milioni nei settori dell’acciaio, del carbone, del cemento. È un passaggio difficilissimo, la strettoia che aspetta la Cina del prossimo piano quinquennale: le «ciotole di riso» da moltiplicare in una sorta di miracolo cinese.

Il problema vero è che in alcune province, una singola grande industria di Stato è sia il maggior datore di lavoro, sia il maggior contribuente, sia il maggior debitore, perché le banche – di Stato pure loro – continuano a concedere linee di credito che vengono inghiottite da un business che non restituisce profitti e, anzi, inquina a livelli ormai insostenibili.

In questa situazione, lavoro, crescita esponenziale del debito e ambiente appaiono interdipendenti, ma bisogna fare delle scelte: ristrutturare accollandosi le ricadute sociali o continuare a garantire lavoro «sporco» – inquinante – procrastinando all’infinito i vizi dell’economia cinese? Contraddizioni del genere a Pechino non vengono quasi mai risolte in maniera drastica. Per evitare un’ecatombe di lavoratori sembra che il governo voglia favorire le fusioni tra industrie pesanti afflitte da sovraccapacità strutturale piuttosto che chiuderle semplicemente. Non bisogna poi dimenticare il progetto Yi dai yi lula via della Seta – che implica il consumo parziale dell’oversupply attraverso la messa in rete – ferroviaria, stradale, digitale, energetica – di tutto il continente eurasiatico. Stato e mercato possono continuare a convivere.

Se anche in Cina – rigorosamente all’interno del Partito e dietro le quinte – si agitano epigoni del neoliberismo e sostenitori di ricette keynesiane, queste schiere contrapposte sono però infilate in un frullatore con altri ingredienti: l’esigenza di stabilità sociale, il primato del Partito e le stesse dimensioni del Paese, solo per citare le più note. Tutte variabili che da queste parti cambiano la natura stessa dei problemi.

Gli scenari futuri sono incerti, ma una cosa è sicura: la Cina continuerà ad attraversare il fiume tastando le pietre.

@chinafiles

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    Gabriele Battaglia
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    L’Europa e il bellicismo crescente delle sue classi dirigenti. L’ultimo caso, quello dell’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone e la postura aggressiva che dovrebbe tenere la Nato. Cosa possono fare il pensiero e la cultura della pace per contrastare l’escalation bellicista e la normalizzazione della violenza? Le risposte possono non essere quelle consuete, soprattutto perché in Occidente stiamo assistendo ad un cambio delle coordinate geopolitiche costruite negli ultimi ottant’anni. Un esempio. Il settimanale «The Economist» ha scritto nella sua rubrica di geopolitica «The Telegram» apparsa oggi sulle pagine online: «In Europa le preoccupazioni per l’inaffidabilità dell’America sotto Donald Trump stanno lasciando il posto a un timore più grande: che, pur presentandosi come il campione della civiltà occidentale, egli consideri ormai le democrazie occidentali reali come avversarie. “Nella Washington di oggi” - scrive il nostro editorialista di The Telegram - l’Europa “è spesso descritta con maggiore disprezzo rispetto alla Cina o alla Russia”. Pubblica oggi ha ospitato Donatella Della Porta, scienziata della politica, e Agostino Giovagnoli, storico.

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