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Refusenik israeliana, andrà in carcere

“Tra due mesi andrò in prigione perché mi rifiuto di entrare nell’esercito israeliano, ma sono convinta della mia scelta e non ho paura”. Atalya Ben-Abba è tranquilla e sorridente, sembra una giovane donna come tante, ma appena racconta la sua storia emerge la personalità e viene fuori una forza che va al di là dei suoi diciannove anni. Nata e cresciuta a Gerusalemme, Atalya sta portando la sua testimonianza ovunque ci sia qualcuno che ascolta ed è stata ospite anche di Radio Popolare.

Mi rifiuto coscientemente di arruolarmi – ha raccontato – Non voglio essere parte di un sistema che occupa le terre palestinesi. Mi rifiuto di proteggere i coloni e di contribuire alla propaganda di Israele costruita ad hoc per convincere le persone ad andare ad abitare in Palestina. A Gerusalemme, per esempio, le case costano tanto, le tasse e le bollette dell’acqua sono care. Nelle colonie, invece, gli appartamenti sono economici, così come tutti i servizi, come l’acqua per l’agricoltura. Dicono alla gente, andiamo e prendiamoci sempre più terra”.

Per Israele Atalya è una traditrice che deve pagare cara la sua scelta controcorrente, anche se, in realtà, sono tanti i giovani che non vogliono diventare militari. Un numero sempre più alto, tanto che hanno costruito proprio una rete chiamata “Refusenik”, cioè noi che rifiutiamo. Il gruppo raccoglie coloro che dicono No all’occupazione ma dicono anche basta vendere armi a Israele e si rivolgono a tutti i governi europei, anche a quello italiano che ha venduto 30 M-346 (aerei di addestramento militare transonici) per un totale di 68 milioni di euro (dati del SIPRI Stockholm International Peace Research Institute ndr). “Voglio che tutti aprano gli occhi sulla realtà. Non mi piace parlare di conflitto – ha specificato Atalya – perché quella israeliana è una vera occupazione, con conseguenti violazioni dei diritti umani”. Come tutte le bambine, andava a scuola e i suoi compagni erano accecati dall’odio per i palestinesi, erano razzisti e l’undicenne Atalya non riusciva a comprendere davvero perché ci fosse quella paura e quella ripugnanza. Poi il fratello più grande decise di non arruolarsi e per la prima volta Atalya sentì la parola “occupazione”. “Ascoltavo i discorsi della mia famiglia e iniziai ad avere il quadro della situazione anche perché abbiamo sempre vissuto al confine tra Gerusalemme est e ovest, nel quartiere di Misrara, vicino al muro, per cui conoscevo già le differenze tra i due mondi. Da un lato vita serena e benessere, dall’altro povertà e paura”. Le idee di Atalya cominciavano già a delinearsi ma è stato quando ha dovuto fare, come tutti gli adolescenti, il servizio civile di preparazione alla vita militare che ha capito che non sarebbe mai potuta essere un soldato. “Per me era assurdo che dei ragazzini avessero in mano un arma, mi vedevo ridicola. Mi sembrò una cosa tragica e assurda allo stesso tempo, come se il mio destino fosse segnato e allora capii.”. La famiglia, tranne il nonno, l’ha appoggiata e continua a sostenerla pur sapendo che la vita che ha scelto è molto difficile. “Siamo dei traditori, viviamo da outsider in casa nostra, ma sono preparata ai processi e al carcere”.

Molte amiche di Atalya sono già in prigione, altre invece, si sono arruolate e non capiscono la sua posizione. Chi proprio non voleva trovarsi in prima linea, ha deciso di state ai check-point solo ad osservare il passaggio ma anche questo, per Atalya è una violazione. “Non dovrebbero proprio esserci i check-point, questo è il punto della questione.”Gli altri amici sono palestinesi. Insieme fanno contro-propaganda, usano i social neteork, spiegano com’è la situazione veramente e combattono a modo loro, con parole e conoscenza. “E’ una cosa importante – ha detto Luisa Morgantini dell’Assopace Palestina – e la storia di coraggio di questa ragazza deve essere un monito per i governi che contribuiscono all’occupazione di Israele”. Tra qualche giorno Atalya torna a casa a Gerusalemme, pronta ad affrontare il suo destino, le conseguenze della sua scelta. Gli interrogatori, il carcere, la pressione psicologica.

  • Autore articolo
    Bianca Senatore
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