
Questa mattina Elly Schlein ha celebrato il risultato del referendum come se fosse stato un successo: “l’alternativa è più vicina grazie alla straordinaria piazza di sabato per Gaza e per i 14 milioni che sono andati a votare nonostante premier e maggioranza invitassero a fare l’opposto”, ha dichiarato.
Un calcolo politicista che prende i 14 milioni di partecipanti e se li intesta come se fossero una base elettorale. Basterebbe vedere cosa è successo nel quesito sulla cittadinanza per dimostrare però che non è così. Quel 40% di no a tempi più rapidi per la cittadinanza è arrivato dalla maggioranza di elettori 5 Stelle ma anche a un 20% di elettori Pd, secondo l’analisi dell’Istituto Cattaneo di Bologna.
Il voto casomai ha dimostrato che l’unità si può avere su alcuni temi, e a fatica, e non su altri. Un referendum è una cosa, le elezioni politiche sono una partita completamente diversa, non sovrapponibile. Una conferma è arrivata nel pomeriggio: i parlamentari 5 Stelle delle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato hanno definito il sostegno all’Ucraina “bellicismo che prolunga la guerra” e sostenuto che se il negoziato tra Russia e Ucraina non dà risultati non è per la reiterata indisponibilità russa al compromesso ma per quelle che definiscono “provocazioni militari e verbali”, evidentemente di parte ucraina e occidentale. Una dichiarazione che il PD può fingere di non vedere ma che segna una distanza difficile da ricomporre.
“I risultati della tornata referendaria non possono essere interpretati come la prova di conferme o cambiamenti dell’equilibro elettorale tra i partiti”, scrive l’Istittuto Cattaneo.
A oggi a tenere insieme centristi renziani, centristi calendiani, liberali, riformisti Pd, sinistra Pd, rossoverdi, pentastellati è più che altro la paura di una nuova vittoria della destra.
Ma il 30% di partecipazione al referendum e il 40% di no alla cittadinanza dicono che ragionare sui programmi è molto più difficile che cercare di stare tutti uniti con il collante del “fronte anti regime”.