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Referendum costituzionale: le ragioni del sì e quelle del no

parlamento referendum costituzionale

Nella puntata di martedì 15 settembre Prisma ha ospitato due costituzionalisti che, dopo aver sostenuto tutti e due il sì al referendum costituzionale del 2016, oggi, sul referendum per il taglio dei parlamentari, si trovano su fronti opposti.

Marilisa D’Amico costituzionalista dell’Università degli Studi di Milano, sostiene le ragioni del no.

Carlo Fusaro, che insegna diritto pubblico comparato all’Università di Firenze, è per il sì.

Professoressa D’Amico quali sono le ragioni del suo no al referendum costituzionale?

A me dispiace molto votare no in questa consultazione referendaria, perché sono una costituzionalista che è sempre stata favorevole all’idea di riformare, in particolare il parlamento. Ma questa riforma, in realtà, non è una riforma che migliora e incide davvero sulla funzionalità del parlamento. Anzi, rischia di produrre l’effetto opposto, perché la ratio della riduzione del numero dei parlamentari, e la ratio dei suoi promotori, è proprio quella di superare la democrazia rappresentativa. Tanto è vero che insieme a questa proposta vi sono anche altre due riforme: la negazione del libero mandato, e quindi l’introduzione di un vincolo di mandato per i parlamentari, e l’introduzione di un referendum propositivo con cui sostanzialmente una minoranza di cittadini potrebbe, di fatto, contrastare la volontà del Parlamento e incidere, direttamente, con una legge. Ora, la ratio della riforma non è di migliorare la democrazia ma di arrivare a una “democrazia del plebiscito” che poi non è più una forma di democrazia. Quindi, il punto principale che questa riforma non fa – con i partiti che si affannano dicendo che lo faranno in un secondo momento, con tutti i problemi legati alle riforme per tappe – è che non viene toccata minimamente quella che è la principale causa delle lentezza e inefficienza del nostro Parlamento, che è la formula del bicameralismo paritario. Queste sono le principali ragioni del mio no. Dopodiché le ragioni specifiche sono dovute al fatto che all’indomani di una riduzione secca del numero dei parlamentari noi ci troveremmo comunque di fronte alla necessità di modificare velocemente i regolamenti parlamentari. E tutti sanno che i regolamenti parlamentari non possono modificarsi in maniera veloce. E con questi regolamenti, che spesso fanno riferimento ai numeri, per far lavorare le Camere, allora si inciderebbe negativamente sulla funzionalità dell’organo legislativo.

Le ragioni del sì, invece, professor Fusaro?

Ma io sono un po’ sorpreso dalle argomentazioni della mia collega, perché, di fatto, ultime argomentazioni a parte, ha fatto solo una serie di supposizioni che non sono affatto fondate. Sulla presunta logica della riduzione dei parlamentari io credo che tutti sappiano che si parla di un’esigenza, quella di rendere il Parlamento italiano meno pletorico di quanto non sia, nel raffronto con tutti gli altri paesi paragonabili al nostro. Ed è una cosa della quale si discute da decine e decine di anni. Può darsi che una delle forze politiche che ha promosso la revisione abbia degli intendimenti, come dire, populisti. Ma, a parte il fatto che i due provvedimenti cui faceva riferimento la professoressa prima sono archiviati, bisogna tenere conto di un elemento di fondo: questa è una revisione abbastanza modesta, che non ha la pretesa di essere una riforma del bicameralismo – che non è nemmeno nell’agenda di questa legislatura – che è stata votata all’unanimità da tutte le forze politiche ad eccezione di +Europa. E quello a cui assistiamo è un referendum che, a mio avviso, non avrebbe dovuto nemmeno essere richiesto e che viene non da una parte del Parlamento ma che viene da una serie di parlamentari, senatori in particolare, in dissenso rispetto alla linea delle proprie forze politiche. Quindi è il referendum ad essere populista, perché si vuole usare lo spauracchio della democrazia diretta per sovvertire una decisione presa dalla democrazia rappresentativa, nel suo massimo consesso. Per questo è curioso che si accusi questa riduzione di essere populista, quando forse è proprio il no alla riduzione ad essere populista. Inoltre, sono molto sorpreso dal sentire i discorsi sui regolamenti parlamentari perché è ovvio che questi dovranno subire delle modifiche dopo la riduzione. Quando si parla di lentezza, di come si farà, di come non si farà, i lettori devono sapere che nel caso in cui il taglio sarà effettivo, come io mi auguro, si applicherà a partire dal 2023. Quindi ci sono ben 3 anni per preparare eventuali revisioni dei regolamenti, comunque necessarie, soprattutto al Senato. C’è poi un ultimo elemento che giustifica il sì. C’è una sola integrazione a questa riforma che ha prospettive concrete di andare in porto ed è quella del diritto di voto ai diciottenni per il Senato. Ecco, questo è un fattore positivo perché il nostro Parlamento, per metà, non è eletto a suffragio universale ed è uno dei pochi nel terzo millennio.

Professoressa D’Amico, se vuole replicare…

Anche io sono molto sorpresa dalle sue argomentazioni professore. Tutti sanno che il referendum costituzionale, cioè quello previsto dall’art 138 della Costituzione, nella sua ratio originaria, è un referendum definito oppositivo. La sua funzione principale è quindi quella di permettere, a chi si oppone al progetto di riforma, di chiedere al Popolo di esprimersi in via definitiva. Una parte delle forze che hanno proposto la revisione vuole scardinare il Parlamento, mentre le altre no. Ma le altre che tengono alla democrazia rappresentativa non propongono una riforma per una maggiore funzionalità del Parlamento. No, non lo fanno. E cosa fanno? Propongono dieci riforme diverse che vogliono omologare le Camere, ad esempio con il voto ai diciottenni per il Senato, eliminando una delle differenze tra i due organi. Quindi alla fine noi avremo un Parlamento con meno parlamentari, con un maggior controllo dei partiti più importanti, soprattutto se non si riuscirà a cambiare la legge elettorale, e anche su questo ho i miei dubbi.

Professor Fusaro, uno dei temi spesso sollevati è quello della rappresentanza. Perché se dovesse passare il sì diminuirebbe il numero di rappresentati per abitante. Lei cosa pensa a proposito?

Questa è una domanda curiosa. Perché ridurre il numero di rappresentanti per abitante è uno degli obiettivi della modifica, visto che l’Italia ha uno dei numeri più alti al mondo. Il massimo, fatta eccezione per i paesi più piccoli come Malta, San Marino o Cipro. Noi di tutte le democrazie simili alla nostra, dall’Inghilterra alla Germania, dalla Francia alla Spagna, ne abbiamo molti di più. Altre osservazioni: è verissimo che l’art 138 della Costituzione prevede il referendum oppositivo, ma l’opposizione al taglio è stata condotta da una minoranza di senatori. Non è stata condotta da una minoranza di forze politiche e nemmeno da 500.000 elettori. In secondo luogo io sono convinto che il rilancio del Parlamento possa nascere proprio dalla sua capacità di dialogare con l’opinione pubblica e i cittadini, per dimostrare di avere raccolto il messaggio di una larga maggioranza della popolazione che continua a chiedere istituzioni politiche più snelle e più sobrie. Questo è un segnale anche coraggioso, perché i parlamentari che lo hanno votato sanno benissimo che riducono di gran lunga le loro possibilità di essere rieletti, anche a parità di voti. Il rilancio del Parlamento può nascere da questo. Il rilancio non c’è se si difende il Parlamento più pletorico del mondo. Infine, io credo che il fronte del no si macchi di due difetti: il vizio del massimalismo, “o si riforma tutto il bicameralismo o niente”, e il vizio del benaltrismo, “bisognerebbe fare altre cose ben più importanti di questa”. Questa riforma, a differenza di altre è precisa e puntuale. Si basa sui numeri. I cittadini devono rispondere al quesito se preferiscono un Parlamento più snello (400 + 200) oppure il Parlamento pletorico da 630+315, come fissato 50 anni fa, quando non c’erano ancora le Regioni, i consiglieri regionali e neanche i parlamentari europei che garantiscono una quota di rappresentanza che all’epoca dei Costituenti non era prevista. La questione è semplice.

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    Gran Bretagna e Germania, i grandi malati d'Europa. Il primo ministro britannico Starmer e il cancelliere tedesco Merz sono entrambi proiettati in una rincorsa della destra estrema. Il laburista britannico Starmer, due settimane fa: «restauriamo ordine e controllo», titolo di un documento presentato alla Camera dei Comuni. Il democristiano tedesco Merz: ci vogliono «controlli ai confini e respingimenti» perchè «l’immigrazione ha un impatto sul paesaggio urbano». Proprio così. Germania e Gran Bretagna, due potenze economiche mondiali: la Germania (80 milioni di abitanti) con il terzo pil del mondo (dopo Stati Uniti e Cina); il Regno Unito (con 60 milioni di abitanti) con il sesto pil mondiale (dopo la Germania c’è il Giappone e l’India e poi il Regno Unito). La “malattia” (la rincorsa ad essere a volte più a destra delle destre) rischia di cambiare i connotati a tradizioni politiche europee centenarie: come il laburismo britannico, il popolarismo democristiano tedesco insieme alla socialdemocrazia, sempre in Germania. Pesa, inoltre, un discorso pubblico sempre più contaminato da un lessico guerresco. Che danni può provocare questa “malattia” in due paesi fondamentali del continente europeo? Pubblica ha ospitato la storica Marzia Maccaferri (Queen Mary, University of London) e il giornalista Michael Braun (corrispondente da Roma del berlinese Tageszeitung).

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