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Rafah, a qualche metro dall’inferno, la testimonianza dal valico

aiuti umanitari Rafah ANSA

Serena Baldini, project manager di Vento di Terra, la ONG attiva nei luoghi di conflitto e di abbandono con l’obiettivo di restituire potere alle persone attraverso ecosistemi integrati di educazione e sviluppo sociale ed economico di comunità, è stata ospite di Esteri per raccontare quello che sta succedendo a pochi metri dall’inferno di Gaza, nell’area del valico di Rafah tra l’Egitto e la striscia di Gaza, dove centinaia di camion di aiuti umanitari sono fermi da un mese.

L’impatto è cominciato da prima, da Al-Arish è tutta una distesa di camion di aiuti fermi ai bordi delle strade. Adesso siamo in un immenso parcheggio e tutto è immobile. Da qui si arriva al valico di Rafah che da questo lato è molto simile a come appare all’interno. C’è una grande porta, una strada che conduce a un edificio, al quale non abbiamo avuto accesso, e al di là di quello, c’è la nostra Gaza. È un po’ strano non vederla, non percepirne la presenza al di là di quel punto. Abbiamo notato numerosi camion, che anche se in movimento, non stavano effettivamente entrando a Rafah.

In questi giorni, siamo riusciti a comprendere il funzionamento del sistema di ingresso degli aiuti umanitari. Da qui i camion vanno a fare i check, le procedure di controllo: raggi x su ogni singolo pallet, sull’intero camion e osservazione visiva. I check avvengono a Nitzana, un valico sul lato israeliano a circa 50 km da qua. I camion percorrono i 50 km da qui a Nitzana e se vengono approvati tornano a Rafah ed entrano, ma tantissimi vengono rigettati per delle stupidaggini come ci raccontavano stamattina gli operatori della Croce Rossa egiziana. Quindi i carichi tornano indietro e questo causa “l’impasto”, questa grande distesa di merci in attesa sotto il sole in mezzo al deserto. Il valico di Rafah di fatto è in uno stato di immobilità. Non entra nulla e non esce nulla. Almeno nel tempo che abbiamo passato lì davanti.

Durante il vostro breve viaggio verso il valico, avete avuto modo di parlare con Gazawi che sono riusciti a uscire?
O  con qualcuno che vi abbia raccontato cosa sta succedendo dall’altra parte?

Abbiamo fatto diverse riunioni preparatorie in vista di questo momento. A Il Cairo, ci siamo incontrati con i referenti dell’UNRWA, del Border Organization, dell’OMS e di diverse organizzazioni palestinesi per i diritti umani, che hanno vissuto in prima persona quello che è successo dopo il 7 ottobre. Alcuni di loro sono riusciti a uscire o escono e poi rientrano in quanto operatori delle Nazioni Unite. Le loro testimonianze sono state molto preziose, venendo da chi lavora nel settore umanitario, con dati accurati e un occhio costante sulla situazione. Ci hanno detto che la nostra presenza qui con una delegazione di 50 persone, tra cui diversi rappresentanti del Parlamento italiano è molto importante. Ci hanno chiesto di essere la loro voce perché ormai loro non ne hanno più. La grande frustrazione è proprio questa: sentirsi ignorati mentre questa catastrofe continua ad andare avanti. La presenza di persone che dall’Italia arrivano e compiono questo gesto simbolico è positiva. Ma ci auguriamo che possa avere un seguito. Speriamo che il nostro Parlamento lavori e i nostri rappresentanti qui facciano pressione sul Governo italiano affinché prenda una posizione e possa essere d’aiuto per un cambiamento rispetto alla situazione attuale.

Negli ultimi giorni si è parlato del pericolo di una carestia, ci sono stati una quindicina di bambini morti di fame. Tra gli operatori umanitari c’è questa preoccupazione?

Assolutamente sì, il rappresentante dell’Oms ci diceva: “Non ci sono più parole per descrivere quello che c’è là dentro. Forse, apocalittico è l’unico aggettivo adatto” ci diceva che, anche se il fuoco cessasse oggi, nell’arco dei prossimi mesi, ci sarebbero comunque altri 8.000 morti in un periodo rapidissimo, perché quello che stanno vivendo lì sta già mettendo fortemente a rischio. La malnutrizione, chiaramente, è un elemento. Ma poi ci sono le malattie. Quindi sì, il rischio di carestia c’è perché non entrano abbastanza aiuti. Sappiamo dal nostro staff all’interno della striscia e da chi è rimasto a casa nel nord che il riso e la farina sono finiti e l’unica cosa che si riesce a trovare è l’orzo mischiato col cibo per animali, perché ormai si va a cercare in tutti i generi di magazzini dove ci sia qualsiasi cosa da mangiare. Confermo che tutte le testimonianze che abbiamo ascoltato in questi giorni ci confermano questa drammatica situazione.

Tu stessa sei stata spesso a Gaza e ci hai raccontato dei progetti di Vento di Terra all’interno della striscia. Come stanno vivendo questo momento i membri del vostro staff?

Per fortuna li stiamo sentendo tutti. Sappiamo che sono in difficoltà e non stanno bene. Non stanno dormendo bene, non stanno mangiando bene e non hanno abbastanza acqua, ma sono tutti presenti. Sono tutti sfollati. La cosa positiva è che si stanno attivando per fare qualcosa per gli altri. Nonostante i limiti enormi, riescono a lavorare e stanno svolgendo attività di supporto per i bambini e le bambine della striscia. Inoltre, il nostro team di maestri, assistenti sociali e psicologi sta fornendo un forte sostegno allo staff medico che opera in una situazione ormai indescrivibile, sotto un carico di stress inimmaginabile. Con quello che si riesce ancora a trovare in termini di cibo e altri generi di prima necessità, stiamo organizzando distribuzioni ad altre famiglie tramite il loro coinvolgimento. Sono di fatto una rete che riesce ancora a essere utile e attiva.

Gaza non è più quella di una volta. Molta gente ha il desiderio di uscire, ma al momento è estremamente difficile. Ho incontrato due architetti con cui abbiamo collaborato in passato che sono riusciti a lasciare Gaza. Uno di loro lavora per l’Organizzazione Mondiale del Lavoro (ILO), un’agenzia delle Nazioni Unite, e per questo sono riusciti a ottenere un autorizzazione, anche se non è stato affatto semplice. Uno di loro è stato trattenuto per due mesi dopo aver fatto uscire la moglie e i figli, e ha potuto uscire solo dopo aver pagato una cifra altissima a quel sistema che esiste qui in Egitto e che potrebbe essere descritto come mercato nero. Ci sono organizzazioni, formali e non, che offrono questo servizio, ma richiedono solo pagamenti in contanti e agiscono in modo completamente nascosto. Tuttavia, non offrono alcuna garanzia su come vivere in Egitto e su quando o se sarà possibile tornare nella striscia di Gaza. È un sistema che consente di uscire solo a chi ha le risorse per farlo. Questo, ovviamente, solleva molte grandi domande.

È frustrante arrivare fino al valico e non poter incontrare lo staff?

Decisamente sì, siamo in contatto tramite WhatsApp tutti i giorni. Li abbiamo informati del nostro arrivo a Rafah e del motivo per cui siamo qui. È decisamente frustrante, si sente di non poter fare abbastanza umanamente, di non poter essere vicino alle persone come si dovrebbe. Tuttavia, è comunque un passo importante. Credo che ci sia bisogno di azioni come queste per dimostrare che è tempo di chiedere con voce più forte che tutto questo finisca. E comunque essere qui è un segno di vicinanza; ho avvertito un po’ di speranza nelle risposte che ho ricevuto in questi giorni. Anche se è chiaro che la nostra presenza non cambia nulla per i nostri collaboratori dentro Gaza, il fatto che ci siamo da loro un po’ di speranza. Almeno è un segno di attenzione, sanno che c’è qualcuno che li pensa e che non è d’accordo con quello che gli sta capitando.”

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    Referendum 8 e 9 giugno, lavoro e cittadinanza. Una quarantina di personalità della ricerca e dell’università hanno lanciato un appello al voto per i cinque referendum. I quesiti chiedono di: «Vivere da cittadini», riducendo da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale in Italia richiesto per ottenere la cittadinanza italiana ai maggiorenni stranieri; «Vivere vite meno precarie», riducendo la possibilità di usare contratti di lavoro a tempo determinato; «Lavorare senza licenziamenti illegittimi», riducendo le possibilità di licenziamenti senza giusta causa; «Lavorare senza discriminazioni», riducendo le possibilità di licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese; «Lavorare senza infortuni», riducendo i rischi di incidenti e morti sul lavoro. Ospiti di Pubblica, per parlare di partecipazione, due firmatari/e: Filippo Barbera, sociologo dell’università di Torino e Donatella Della Porta, scienziata politica alla Scuola Normale Superiore di Firenze. Diverse le domande. E’ arrivato il momento di abbassare la soglia del 50% di partecipazione per rendere valido il referendum? Perchè fallisce la partecipazione? Quanto c’entra la complessità del quesito, la credibilità dei proponenti? «Non possiamo arrenderci all’assenteismo, ad una democrazia a bassa intensità», ha detto il presidente Mattarella per il 25 aprile. Il capo dello stato ha lasciato, però, inesplorate le ragioni profonde dell’astensione, ragioni che risiedono anche nell’impoverimento sociale, oltre che economico, del lavoro. Ha scritto la studiosa, dirigente dell’Istat, Linda Laura Sabbadini: «Il lavoro non è solo un mezzo per guadagnarsi da vivere: è la base della coesione sociale di un paese».

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