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Profughi, frontiera chiusa sul ponte tra Svezia e Danimarca

Il ponte di Oresund, che collega Copenhagen a Malmoe, era il simbolo dell’integrazione scandinava e, più in generale, europea. Da alcune ore, per decisione del governo di Stoccolma, le autorità di frontiera chiedono i documenti a tutti i viaggiatori. La Svezia, e di conseguenza la Danimarca, hanno sospeso il trattato di Schengen per far fronte al flusso ininterrotto di richiedenti asilo in arrivo dai Balcani attraverso la Germania.

Nel 2015 gli svedesi, dieci milioni di abitanti, hanno accolto oltre 160mila profughi. Una percentuale di richiedenti asilo sul totale della popolazione che ora viene considerata insostenibile. La Danimarca, che invece ha accolto solo 21mila rifugiati, ha reagito immediatamente chiudendo il confine con la Germania per evitare di diventare la destinazione finale dei migranti in arrivo dai Balcani.

Abbiamo chiesto un commento su questa situazione a due giornalisti scandinavi: Peter Loewe è il corrispondente da Roma del quotidiano svedese Dagens Nyheter, Charlotte Sylvestersen è la corrispondente da Milano della radio danese 24-7.

Cosa è cambiato, cosa ha portato alla decisione di chiudere le frontiere?

Loewe: Io vedo una catena di effetti che mettono in discussione il Trattato di Schengen. La Svezia non ha messo alcun limite ai controlli alla frontiera: non sono temporanei, possono restare in vigore per tre anni a meno che non siano revocati. Una situazione completamente diversa dalla chiusura della frontiera che c’era stata temporaneamente a Ventimiglia, tra Italia e Francia. Bisogna considerare che noi svedesi siamo dieci milioni e nell’ultimo trimestre dell’anno scorso sono arrivati 115mila persone. Adesso al centro della situazione c’è la Germania, che per il momento non può chiudere le frontiere – anche se se ne è discusso. La Frankfurter Allgemeine Zeitung scrive che è come se Svezia e Danimarca facessero a gara per mostrarsi come il Paese meno attraente per i richiedenti asilo. Certo i numeri sono molto diversi: la Danimarca l’anno scorso ha accolto 21mila rifugiati, la Svezia 160mila. Una cifra record, non dico fuori dalla capacità di accoglienza della Svezia – che in questo momento è un Paese che sta economicamente bene – ma che certo ha creato dei problemi. Da qui la decisione del governo.

Sylvestersen: La decisione danese è conseguenza di quella svedese. È chiaro infatti che quegli 11mila migranti che ogni settimana entravano in Svezia ora si sarebbero fermati a Copenhagen, non potendo più passare lo stretto tra Danimarca e Svezia. Così il governo della Danimarca ha reagito dodici ore dopo quello svedese, reintroducendo i controlli alla frontiera con la Germania. Non per un periodo così lungo come la Svezia, perchè i danesi non vogliono offendere il loro grande vicino del Sud: al momento sono in vigore per dieci giorni, poi si vedrà. Il motivo è chiaro: evitare che la Danimarca diventi il Paese di destinazione finale dei profughi. Così ora il “tappo” diventerà il nord della Germania, dove già si raccolgono i profughi, molti dei quali sperano di andare ancora più a nord.

Loewe: Certo una chiusura delle frontiere anche da parte della Germania, il grande Paese al centro della politica europea, sarebbe un colpo mortale per uccidere il Trattato di Schengen. Ma in Baviera se ne sta già parlando…

Sylvestersen: Il discorso non riguarda solo le frontiere interne, ma anche quelle esterne dell’Unione europea, che hanno bisogno di essere rafforzate. La sensazione in Danimarca, come credo anche in Svezia, è che in Europa si parli molto di questa emergenza ma si faccia poco.

Come i governi svedese e danese hanno gestito la situazione in questi mesi?

Loewe: In modo piuttosto simile a quanto fatto dai tedeschi. Fino allo scorso autunno dicevamo “siamo un Paese aperto, che accoglie tutti quelli che hanno diritto di chiedere asilo”. Poi però abbiamo dovuto cambiare linea, non era possibile sostenere un flusso di migliaia di arrivi ogni giorno. Ci sono state anche ragioni politiche: la pressione dell’opinione pubblica, il partito dei cosiddetti Democratici svedesi – un partito di destra – che sta arrivando al 20 per cento dei consensi secondo gli ultimi sondaggi.

Sylvetersen: La Danimarca invece è stata meno aperta a questo flusso di migranti, ma il dibattito pubblico è stato molto acceso. Anche da noi c’è un partito di destra, il Partito popolare danese, accreditato di oltre il 20 per cento dei consensi, che ha salutato la decisione del governo chiedendo di più. Vogliono che torni una frontiera fisica, i controlli per tutti e la sbarra che si può alzare o non alzare. Certo il governo liberale del primo ministro Rasmussen ha reagito tempestivamente: la Svezia ha reintrodotto i controlli a mezzanotte del 3 gennaio e la Danimarca ha fatto altrettanto sul confine con la Germania a mezzogiorno del 4 gennaio. E in questo il Governo di centrodestra ha il supporto dei socialdemocratici.

Loewe: In questi ultimi quindici anni, dopo la costruzione del ponte di Oresund, le economie di Svezia e Danimarca si sono molto avvicinate, c’è un grande flusso di pendolari che ogni giorno si sposta tra un paese e l’ altro. Questa integrazione economica e i relativi posti di lavoro possono essere messi a rischio, perchè ora i controlli allungheranno il tempo di percorrenza del ponte, da mezz’ora a oltre un’ora. Gli effetti di questa decisione sono tutti da verificare.

Il ponte di Oresund è stato un simbolo dell’integrazione europea, e ora proprio lì vengono fermati i viaggiatori…

Sylvestersen: Nella storia, Svezia e Danimarca sono state spesso in guerra, dunque quel ponte rappresenta proprio l’avvicinamento tra i nostri paesi. Rappresenta una macroregione che funziona, in Scandinavia. Per questo la reintroduzione dei controlli fa male, anche psicologicamente. Riabituarsi sarà una botta.

Ascolta l’intervista integrale a Peter Loewe e Charlotte Sylvestersen

Loewe-Sylvestersen

  • Autore articolo
    Lorenza Ghidini
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    L'abbiamo scoperto con l'EP "Somewhere only we go" e oggi a Volume abbiamo avuto modo di conoscere meglio la storia di questo cantautore nigeriano, che si è poi formato musicalmente in Ghana: "Nel corso degli anni le nostre musiche si sono fuse: l'highlife ghanese, il palm-wine, il folk di Kumasi, il suono contemporaneo della chitarra. Ho potuto unire questi due mondi, mescolandoli con le radio occidentali che ascoltavo da ragazzo". Il risultato è un folk pop pieno di anima e di profondità: "Il mio obiettivo non è solo una carriera internazionale, ma costruire qualcosa in Africa. Voglio creare una struttura che funzioni per artisti come me, gente con una chitarra o un tamburo, artisti contemporanei che non hanno modo di raggiungere il loro pubblico". Ascolta l'intervista di Niccolò Vecchia a Tommy WA.

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