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Primavere Arabe, dieci anni dopo. Quali eredità hanno lasciato?

Primavere Arabe

Rolla Scolari, giornalista di Sky TG24 ed esperta di Medio Oriente, riflette per Radio Popolare sulle motivazioni dietro allo scoppio delle Primavere Arabe dieci anni fa e l’eredità che hanno lasciato nella zona.

L’intervista di Lorenza Ghidini e Roberto Maggioni a Prisma.

Si può dire che cosa ha causato quelle rivolte? C’è un denominatore comune di dieci anni fa?

Si può, e lo si fa partendo da Mohamed Bouazizi, il venditore ambulante che si è dato fuoco davanti a un palazzo dell’amministrazione governativa. Era un giovane, 27 anni, e gli era stata confiscata la bilancia con cui lavorava ogni giorno al mercato. Era andato all’ufficio governativo per lamentarsi di questo fatto, e non si sa bene esattamente cosa sia accaduto ma si è scontrato con una burocrazia che soffoca l’imprenditoria e il lavoro dei giovani. Cosa c’è di comune in questi Paesi? Una generazione molto giovane, molto numerosa, che prima di avere una rivendicazione politica ne aveva una sociale. Voleva una governance dei regimi di questi stati migliore, voleva riuscire a trovare un lavoro, a non essere sovrastata da questa amministrazione burocratica terribile che rallentava qualsiasi cosa. Queste questioni sociali, sicuramente rese ancora più acute da un’economia molto fragile, sono diventate delle richieste politiche che si sono trasformate in quello slogan che abbiamo sentito ovunque nelle piazze del mondo arabo del 2011, ovvero “vogliamo la caduta del regime”, una rivendicazione che si è trasformata da sociale ed economica a molto politica con il passare dei giorni.

Possiamo dire quali promesse sono state tradite, e quali invece realizzate, a dieci anni di distanza?

Purtroppo sappiamo com’è andata. Guardavo pochi giorni fa uno studio che prendeva gli aspetti economici, politici e dei diritti civili di questi Paesi (Egitto, Libia, Yemen, Siria e Tunisia) e sappiamo che solo la Tunisia, prendendo questi indicatori, ha fatto dei passi avanti verso una transizione democratica. Negli altri Paesi, da un punto di vista sia economico, sia politico, sia sociale, c’è stato un passo indietro perché ci sono state delle controrivoluzioni: prendiamo l’esempio dell’Egitto, dove la dittatura di Al-Sisi è considerata da molti persino più repressiva rispetto a quella del predecessore Mubarak. La Tunisia invece è riuscita in questa transizione pacifica e democratica, anche perché riuscita a livello politico a mettere in campo, con una certa semplicità dopo due giri di elezioni, un compromesso politico tra gli islamisti e la parte più laica del paese. Sappiamo che la Libia, la Siria e lo Yemen, prima di parlare di transizione politica, sono finiti in un conflitto per cui è stato impossibile portare avanti quei sogni democratici che aveva quella giovane piazza di cui abbiamo parlato.

Nel 2019 abbiamo assistito ad altre rivolte in Paesi come il Sudan, l’Algeria e il Libano. Si può dire che queste proteste siano figlie delle rivolte delle Primavere Arabe?

Sono figlie della stessa frustrazione. Sono le stesse pulsioni economiche, sociali e politiche che stanno spingendo sempre una generazione molto giovane. Succede in Libano, in Algeria e in Sudan, e secondo me è la prova che per quanto le rivolte del 2011 non abbiano portato i frutti sperati dalla piazza, non siano state invano. Il genio è uscito dalla lampada e continua a causare questi sollevamenti. Succede che le piazze di Algeria, Libano e Sudan sono arrivate a queste rivoluzioni, forti anche degli errori dei “colleghi” nel 2011, in un certo senso. In Algeria, dopo poche settimane di manifestazioni, è caduto il presidente Bouteflika, ma nessuno ha smesso di scendere in piazza. Il movimento aveva capito che nel 2011 la caduta di un autocrate era bastata per fermare la rivolta, ma invece per avere un cambiamento davvero completo, occorre cambiare la leadership al potere. In Libano un po’ è stata la stessa cosa. Queste manifestazioni si sono poi scontrate con la pandemia del COVID-19, perché si è dovuto mettere un freno agli assembramenti ovunque nel Mondo, anche in Libano e in Algeria. Anche in Libano abbiamo visto una protesta che voleva un cambiamento reale della propria leadership, che aveva innanzitutto la capacità di portare un piano politico e anche la coesione maggiore di una società civile che probabilmente non c’era nel 2011. Dall’altra parte hanno imparato molto anche i regimi. Per esempio nel 2011 hanno subito la presenza dei social media, che sono serviti a organizzare la piazza, e in questi anni purtroppo hanno imparato a sfruttarli come strumento di repressione. Questo lo abbiamo visto molto bene in Egitto anche col caso Zaki.

Forse proprio questa repressione furibonda che ha messo in atto Al-Sisi, anche nel caso Regeni, tradisce una consapevolezza che la forza del popolo può essere pericolosa per lui, come lo è stata per chi l’ha preceduto.

Sono d’accordo. Questa ossessione di regimi come quello di Al-Sisi per la repressione nasconde il suo conoscere molto bene quello che è successo nel 2011. L’anno scorso in autunno, nonostante il grande livello di repressione che c’è in Egitto, per due giorni ci sono state delle manifestazioni velocemente represse, ma in un Paese come l’Egitto, adesso che qualcuno scenda in strada è incredibile, la dice molto lunga sul tipo di frustrazione che ancora serpeggia. Una popolazione molto giovane che vuole una vita normale, trovare un lavoro, viaggiare e votare, fare tutto quello che facciamo noi senza finire in un carcere preventivo. Queste cose non sono scomparse e quella popolazione è ancora lì.

Quali sono i Paesi in cui possiamo aspettarci un proseguo di rivolte e proteste?

Questo è impossibile dirlo. L’Algeria è un Paese che ha puntato molto sulla ripetitività della protesta, un format nuovo rispetto alle altre. Mi aspetto che nei prossimi mesi l’Algeria possa continuare e ne senta la necessità, perché con la pandemia si è interrotto un processo in cui certe parti del regime erano già andate via, e certi risultati erano già ottenuti dal movimento. È sempre difficile dire dove queste rivolte possano scoppiare. L’abbiamo visto con la Tunisia, dove nessuno se l’aspettava. In un certo senso anche il 2019, per la localizzazione delle rivolte, è stato abbastanza sorprendente. In Libano per esempio la rivolta è stata diversa e soprendente.

Foto | Chris Belsten

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    Nel cinquantenario della morte di Šostakovič il Teatro alla Scala inaugura la Stagione con il suo capolavoro Una lady Macbeth del distretto di Mcensk, tratto dal racconto di Nikolaj Leskov in cui una giovane sposa con la complicità dell’amante uccide il marito e il tirannico suocero, ma viene scoperta e finisce per suicidarsi in Siberia, tradita da tutti. Dopo il debutto a San Pietroburgo, l’opera, che avrebbe dovuto essere il primo capitolo di una trilogia sulla condizione della donna in Russia, ebbe enorme successo in patria e all’estero. Stalin assistette a una rappresentazione a Mosca nel 1936; due giorni dopo apparve sulla Pravda la celebre stroncatura dal titolo “Caos invece di musica” con cui il regime metteva all’indice l’opera e il compositore. Anni dopo Šostakovič preparò una nuova versione che andò in scena a Mosca nel 1963 con il titolo Katarina Izmajlova, dopo che il sovrintendente Ghiringhelli aveva invano cercato di ottenerne la prima per la Scala. Oggi il Teatro presenta la versione del 1934 con la direzione del M° Chailly e il debutto del regista Vasily Barkhatov. Ascolta Riccardo Chailly nella presentazione dell’opera.

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