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Obama a Cuba, tra speranze e scetticismo

L’AVANA – Abituati a ridere di tutto e in qualsiasi circostanza, i cubani hanno avuto quest’ultimo mese un argomento extra su cui esercitare il loro humour: “Si vede che di qui Obama non deve passare, questa strada non la toccheranno!”, scherza il taxista mentre la macchina sobbalza sprofondando in una delle tante buche. Intanto, fin dai giorni immediatamente successivi all’annuncio – in febbraio – della visita del presidente americano, qua e là per l’Avana sono improvvisamente apparsi bulldozer, rulli compressori e operai, al lavoro per rifare il manto di diverse strade, cominciando intorno al fronte dell‘Habana Vieja nelle vicinanze di Plaza de la Catedral e dalle parti di Plaza de la Revolucion; di altre vie l’asfalto non è stato rinnovato ma in compenso è stato dotato di una candida segnaletica orizzontale, assente da tempo immemorabile.

Battute a parte, parlando a caldo con la gente, un mese fa l’impressione era di non grande eccitazione: tanti davano l’idea di essere troppo presi dalle tribolazioni della loro quotidianità per dare gran importanza all’evento. E si poteva registrare anche aperto scetticismo: a darmi la notizia in febbraio è il cameriere di un bar piuttosto trendy aperto recentemente all’Habana Vieja, gli chiedo che impressione gli fa, immagino fra l’altro che possa pensare che Obama passerà da quelle parti, magari proprio per la larga strada su cui si affaccia il locale: “Ne abbiamo sentite tante, ma alla fine non è cambiato niente”, mi risponde riferendosi all’embargo.

Eppure la visita di Obama – che, primo presidente americano dopo la visita di Calvin Coolidge nel 1928, arriverà all’Avana nel pomeriggio di oggi per restarci domani e martedì – indica che entrambe le controparti, almeno nelle persone dei due leader, hanno tutto l’interesse ad accelerare, anche se è difficile prevedere se la visita sarà l’occasione per qualche storico annuncio, che potrebbe riguardare appunto l’embargo, Guantanamo, o – su un piano simbolicamente molto meno rilevante – l’avvio di significativi investimenti statunitensi.

Nella direzione di una accelerazione da parte di Obama vanno certamente forti interessi di settori economici americani, che non da oggi premono per aprirsi un nuovo mercato di sbocco per merci americane (a cominciare dai prodotti agricoli) e uno spazio semivergine per investimenti. Le visite di Bergoglio e del primate di Russia, così come le trattative tra governo colombiano e Farc che l’Avana ospita da tempo e che forse conosceranno una positiva evoluzione proprio più o meno in coincidenza con la visita di Obama, testimoniano poi dell’importanza e del prestigio che Cuba conserva in questa parte del globo e della sua notevole capacità di manovra sul piano diplomatico: potenzialmente una risorsa preziosa nella prospettiva di un riordino da parte degli Usa dei loro rapporti con l’America latina.

In più, se vuole davvero inscriversi nella storia anche per la normalizzazione dei rapporti con Cuba oltre che con quelli con l‘Iran, Obama non può accontentarsi del ristabilimento delle relazioni diplomatiche, dell’addolcimento dell’embargo e di una storica visita: risultati che, se non si va a stringere “blindando” i nuovi rapporti con Cuba prima delle elezioni presidenziali americane, potrebbero persino essere compromessi da una nuova presidenza. Se è vero che Obama rendendo visita ad (almeno) uno dei Castro si espone a forti critiche – non un grosso problema però con la sua presidenza in dirittura d’arrivo – d’altro canto Obama potrebbe “vendere” all’opinione pubblica sua e internazionale una ulteriore spinta verso l’eliminazione dell’embargo come un passaggio sostanziale per favorire uno sblocco delle situazione politica cubana. La fresca sconfitta nelle primarie repubblicane in Florida di Rubio, di origine cubana e contrario alla ripresa dei rapporti, conferma del resto che la lobby anticastrista non ha più un vero peso politico.

Ma anche Raul Castro ha interesse ad accelerare. Va bene ristabilire le relazioni con gli Stati Uniti, ma Raul ha bisogno di andare rapidamente all’incasso di risultati concreti.

In un Paese che da ben prima del ’59 ha vissuto esperienze non molto confortanti con l’ingombrante vicino, e dove l’ideologia della Rivoluzione si è innestata su un forte nazionalismo, che continua ad essere molto radicato anche fra chi ormai non si riconosce nel governo dell’isola, per legittimare la riapertura con gli Usa agli occhi dei cubani e all’interno del Partito Comunista, Raul deve presentare un bilancio dei nuovi rapporti con gli Usa che vada ben al di là del ristabilimento di voli e comunicazioni postali diretti (di questi giorni la lettera spedita da Obama ad una cittadina cubana che in questi anni gli aveva scritto invitandolo a passare a prendere un caffè).

Per quanto il bloqueo sia stato utilizzato dal regime come un alibi per mascherare errori e magagne nella gestione dell’economia, il suo peso è reale: “Solo chi non lavora nella sanità e non vede che conseguenze ha – mi diceva in febbraio un medico sulla base della sua esperienza diretta e non del punto di vista del governo – può pensare che gli effetti del bloqueo siano semplice propaganda”. E Raul deve al più presto liberare Cuba da questo giogo e dare fiato ad un’economia complessivamente debole, anche per rispondere al disagio della parte più in difficoltà della popolazione, e cercare di intervenire sulle sperequazioni economiche e sociali che si stanno allargando.

In una intervista del 2008 con Sean Penn, di poco precedente l’elezione di Obama, Raul Castro non aveva affatto escluso – con riferimento alla possibile elezione del candidato democratico – l’ipotesi di incontri e di visite reciproche; maliziosamente, aveva anche rivelato che fin dalla prima metà degli anni novanta si erano stabiliti contatti permanenti, con numerosi meeting, fra i militari delle due parti, e che si erano svolte anche alcune esercitazioni comuni con lo scopo di rodare una risposta coordinata ad eventuali situazioni di crisi, in particolare relativamente a Guantanamo: la strada dunque era aperta. E fin dal momento in cui è succeduto al fratello, Raul ha perseguito l’obiettivo, all’interno di una più generale moltiplicazione e diversificazione di rapporti economici e diplomatici a livello internazionale, di normalizzare i rapporti con gli Usa. Probabilmente Raul è stato mosso non solo dalla volontà di ricollocare strategicamente Cuba dando soluzione ad uno storico contrasto, ma anche dalla preoccupazione di una dipendenza di Cuba dall’asse con il Venezuela (non a caso il presidente Nicolas Maduro ha anticipato di due giorni Obama nella visita a Cuba, ndr): sia perché Cuba era già stata scottata dall’esperienza della dipendenza dall’Urss, con tutto quello che aveva comportato, sia nell’eventualità di problemi in Venezuela. E oggi la crisi venezuelana impone a Raul di cercare rapide alternative.

La normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti è dunque essenziale a Raul per giocare con forti carte in mano al prossimo congresso del partito, che si terrà in aprile – il primo dopo quello del 2011 che approvò i Lineamientos de la Politica Económica y Social del Partido y la Revolución, cioè il piano di riforme voluto da Raul – e nell’ultima fase del suo mandato, che si esaurirà all’inizio del 2018.

Le riforme volute da Raul sono nel frattempo andate avanti ma a rilento, e in questi meno di due anni che gli rimangono Raul ha bisogno di spingerle: così come di indirizzare un ricambio generazionale della dirigenza che sia in coerenza col suo operato di questi anni, operato non necessariamente gradito a tutto il partito, a tutta la nomenklatura, a tutto l’apparato.

  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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    Società Civile per il No. È nato il comitato, promosso da vari esponenti della società civile, da sindacati, associazioni e realtà democratiche, che sostiene le ragioni del No al referendum costituzionale sulla riforma della Giustizia del Guardasigilli Carlo Nordio. Presieduto da Giovanni Bachelet, il comitato ha nel direttivo nomi importanti come il segretario della Cgil Maurizio Landini, la presidente di Libertà e Giustizia Daniela Padoan e l’ex ministra Rosy Bindi. I principali punti del comitato vertono sul fatto che una magistratura autonoma, indipendente, che non guarda in faccia a nessuno sia una cosa che conviene ai cittadini. Il prossimo 10 gennaio a Roma si terrà la prima assemblea generale, per la partenza della campagna referendaria, che vedrà la nascita di comitati territoriali in tutta Italia per lanciare una campagna informativa sulle ragioni del No. “Riteniamo che sia una battaglia per evitare che venga minato un principio fondamentale della nostra democrazia”, ha detto Rosy Bindi, che fa parte del direttivo del comitato, nella nostra trasmissione Radio Sveglia. L'intervista di Alessandro Braga.

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