
La vittoria di Zohran Mamdani alle primarie democratiche per la carica di sindaco di New York è un fatto clamoroso, un terremoto politico, che si allunga non solo sugli equilibri cittadini, ma più in generale sul futuro del partito democratico e della stessa scena politica nazionale.
Mamdani, 33 anni, nato Uganda, figlio di un professore di Columbia University e di una regista, musulmano, cittadino statunitense dal 2018, deputato dello Stato di New York, socialista democratico vicino ad Alexandria Ocasio-Cortez e a Bernie Sanders, era considerato un puro outsider, senza veri, importanti legami con l’establishment, potentissimo, del Partito Democratico di New York, troppo progressista per vincere nella città della finanza, dei grandi immobiliaristi, del potere più sfacciato.
Senza contare che il suo avversario era l’erede di una delle più celebri famiglie democratiche, Andrew Cuomo, 67 anni, ex governatore dello stato di New York, appoggiato dalla struttura del partito, dai sindacati della sanità, dei servizi, dell’ospitalità, da grandi nomi come Bill Clinton e Mike Bloomberg, ex sindaco di New York, che ha fatto afflluire nelle casse di Cuomo 25 milioni di dollari per la sua campagna elettorale. Sembrava non esserci storia, sembrava che Cuomo fosse destinato a sicura vittoria, e invece non è andata così.
Con una campagna elettrizzante, ottimista, rivolta soprattutto al voto giovanile, Mamdani ha guadagnato consensi e visibilità. Ha spazzato via le timidezze del suo partito, prendendo posizioni chiare e progressiste. In una città terrorizzata dal tema casa, che manca, che costa troppo, che non si trova, Mamdani ha proposto affitti calmierati, garanzie per gli inquilini. E poi, trasporti pubblici gratuiti, aumento delle tasse per i più ricchi, sanità garantita e universale per i minori. C’è poi il tema di Gaza. Mamdani ha definito le azioni del governo israeliano a Gaza atti di genocidio. Ha chiesto il boicottaggio, e il disinvestimento, dagli interessi israeliani.
Immediata, è arrivata l’accusa di antisemitismo, che non è proprio una cosa bellissima a New York, seconda città ebraica al mondo dopo Tel Aviv. Lui non ha battuto ciglio, ha continuato a criticare Israele, a battere sui suoi temi, casa, trasporti, sanità, scuola. E alla fine ha, clamorosamente, inaspettatamente, vinto. Mettendo insieme i diversi gruppi etnici della città, bianchi, neri, asiatici, latini, e poi la working class e la classe media, i musulmani e gli ebrei, che non si sono curati delle polemiche e delle accuse di antisemitismo e che, in maggioranza, l’hanno votato.
È la sua notte, è la sua vittoria, ha commentato, sconsolato, Cuomo. La cui sconfitta non è solo la SUA sconfitta, ma è la messa in discussione di una dirigenza, di una leadership democratica che gli elettori non sopportano più, che rifiutano, per le continue timidezze, connivenze, giravolte politiche. Ora Mamdani se la deve vedere, il 4 novembre, nelle elezioni generali, con Eric Adams, sindaco uscente, segnato da scandali personali e critiche politiche, uscito dal partito democratico, che si presenta come indipendente. Adams è sicuro di battere, con il suo appello securitario e moderato, è sicuro di battere Mamdani. È sicuro, Adams, di riuscire alla fine ad attirare il voto della classe media newyorkese, spaventata dal musulmano progressista. Staremo a vedere, per il momento è chiara, soprattutto, una cosa. La scelta di Zohran Mamdani a candidato democratico per la carica di sindaco di New York è un modo, ancora parziale, ancora nascente, in cui una parte d’America cerca di rispondere ai mesi duri, e bui, del governo di Donald Trump.