Approfondimenti

Un processo per il futuro della terra

Sono passati cinque anni da quando l’ex presidente del Senegal Abdoulaye Wade annunciò che in ognuna delle 321 comunità rurali del Paese c’erano mille ettari di terreno disponibili per investitori stranieri interessati a fare business in agricoltura: dalla produzione di biocarburanti fino alla coltivazione di prodotti agricoli destinati al mercato interno. Una dichiarazione che lanciò una corsa alla terra che mise in mani straniere oltre il 50 per cento della terra senegalese, ceduta attraverso licenze della durata anche di 99 anni.

Land grabbing, accaparramento di terra, lo hanno definito gli attivisti delle ong in Senegal e all’estero.

Ad oggi, di tutto questo, non restano che i cocci: qualche decina di migliaia di ettari in tutto, secondo le stime. Una vittoria per i movimenti della società civile che si sono opposti alle maxi acquisizioni di terra? Forse. O più probabilmente la naturale evoluzione di una bolla speculativa esplosa per incapacità imprenditoriale di chi si è avventurato nell’Africa profonda per cercare di trarre profitto dagli ecoincentivi promessi dall’Europa per l’energia pulita. La fine della speculazione lascia comunque intatti i problemi di sviluppo agricolo in questa zona del mondo. Il bilancio è chiaro: il biocarbirante africano non aiuta, né i locali né l’Europa, mentre sul piano agricolo ancora non si sono visti risultati e il giudizio è sospeso.

C’è solo un grande investimento terriero che oggi resta in Senegal: 20 mila ettari nella regione dello Ndiael ceduti da Wade con un decreto presidenziale all’azienda italo-senegalese Senhuile Senethanol. La maggioranza delle quote societarie del gruppo è in mano alla faentina Tampieri, mentre la minoranza appartiene a Senethanol, società a capitale misto con sede a Dakar: ormai però nemmeno le quote delle due sono chiare.

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La storia dell’investimento si è trasformata infatti in una saga politico-giudiziaria che, comunque si chiuderà, segnerà il futuro del Paese nel settore dell’agribusiness. Il 3 marzo, salvo sorprese, al Tribunale di Dakar si attende la sentenza definitiva del primo di una serie di processi che vedono i dirigenti passati e presenti sotto accusa. Uno di questi vede Tampieri alla sbarra con l’accusa di riciclaggio di denaro sporco e, appunto, aumento fittizio di capitale.

Ma il primo procedimento che andrà a sentenza dovrà chiarire se il vecchio direttore generale dell’azienda, l’agricoltore israelo-brasiliano Benjamin Dummai, grande accusatore dei Tampieri, ha rubato denaro dell’azienda oppure no. Dummai, licenziato in tronco dai Tampieri, è stato in carcere preventivo per cinque mesi, salvo poi essere scarcerato perché non esistevano più i presupposti per tenerlo in cella. Era l’aprile del 2014. Da allora pare che l’indagine non abbia raggiunto grandi risultati.

Accuse e contro accuse di quelli che una volta erano membri dello stesso consiglio d’amministrazione, si inseriscono in un quadro politico senegalese dove la terra è uno degli argomenti principali. Macky Sall, l’attuale presidente, ha vinto anche grazie alla sua retorica anti-accaparramento di terra. L’investimento nello Ndiael, sulla carta, avrebbe invece dovuto partecipare al piano per sfamare le zone semi-desertiche del Senegal.

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Per ottenere il favore dal Palazzo presidenziale, però, servono le entrature giuste. Dal 2012 al 2015 il nome da spendere era Gora Seck: imprenditore a tutto campo, dai locali della Dakar by night fino all’agricoltura e alla sicurezza, Gora possiede quote sia in Senhuile, sia in Senethanol. Da primo partner di Dummai, Gora Seck ha sposato la causa di Tampieri, schierandosi con i vertici italiani quando l’ex dg è stato messo in carcere.

Gora Seck era il garante politico per l’investimento di Senhuile e per questo averlo dalla propria parte per i Tampieri significava poter restare sul terreno. Gora vantava legami con uno dei gran ciambellani di corte di Macky: Harouna Dia, businessman della regione di Matam (Senegal centrale) divenuto ricco in Burkina Faso. Quest’amicizia ora però serve a poco: Harouna Dia è stato cacciato dal Palazzo presidenziale, dove aveva un ufficio accanto a quello del presidente pur senza avere incarichi di governo, ed è tornato a Ouagadougou. Il presidente Macky non gli crede più e ha cambiato “suggeritore” in materia di investimenti, visti i risultati ottenuti dall’entourage di Harouna. Politicamente bruciato, Gora Seck rischia di dover pagare il conto con la giustizia: tra le varie accuse nei suoi confronti, c’è l’aver orientato tutti i subappalti di Senhuile-Senethanol, ad aziende proprie o di amici. Nel caso in cui il fascicolo giudiziario nei suoi confronti dovesse andare avanti, sarebbe il primo “intermediario” a finire alla sbarra.

Al netto della guerra giudiziaria, resta un enorme punto di domanda sull’investimento agricolo. L’infrastrutturazione idrica dei campi è a buon punto. Il grosso dei costi sono già stati sostenuti. Sarà possibile abbandonare del tutto l’area, a questo punto? E questo sarà veramente un vantaggio per la popolazione? I dubbi restano, visto che la domanda di cibo nella zona è reale. La ong locale Enda Pro Nat ha cominciato a trattare con il governatore della regione per costringere il governo a ridurre la concessione. Ma affinché questo accada, ci dovrà essere un corrispettivo economico adeguato per chi tra i duellanti uscirà vincitore dalla battaglia in Tribunale. E a quel punto il governo sarà disposto a pagare?

Per le risposte si dovrà attendere ancora qualche mese.

  • Autore articolo
    Lorenzo Bagnoli
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    Le comedians contro la violenza sulle donne al Teatro Lirico di Milano

    Oggi a Cult Mary Sarnataro ci ha parlato di “Zitte mai!”, la serata speciale in scena al teatro Lirico di Milano, che un gruppo di comedians, capitanate da Deborah Villa, dedica all'associazione Cerchi nell'Acqua, che da anni è vicina alle donne vittime di violenza. A partire dalla libertà di esprimersi, la prima che viene a mancare quando una relazione diventa prevaricante, l'appuntamento sarà l'occasione per riflettere sulla violenza sulle donne, usando lo strumento della comicità. L’intervista di Ira Rubini.

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