
Manuel Agnelli, fondatore degli Afterhours: la definizione sembra essere sempre meno esauriente. Sono tante le cose che il musicista e cantante milanese ha fatto negli ultimi anni, mentre la sua storica band era ferma. La televisione, il teatro con “Lazarus” (a Milano agli Arcimboldi dal 28 maggio all’1 giugno, biglietti qui), la rassegna “Carne Fresca”(ne abbiamo parlato qui) in corso da Germi, il locale/centro culturale aperto in via Cicco Simonetta, la radio, anche un po’ di cinema.
Nei prossimi mesi tornerà sul palco anche con gli Afterhours, e con una formazione particolare della band: quella che vent’anni fa ha inciso “Ballate per piccole iene”, per un tour dedicato al compleanno rotondo dell’album (qui date e biglietti).
Lo abbiamo incontrato qualche giorno fa per parlare di tutte queste cose e qui potete leggere il risultato della nostra intervista.
Bentornato Manuel! Oggi sei venuto a trovarci in radio per parlare di…un sacco di cose. Sei pieno di impegni e mi sembra che questo non ti dispiaccia affatto. È un momento felice?
Molto, sì, è chiaro che per fortuna ho trovato gli stimoli per fare tutte queste cose. Ho fatto anche delle scelte importanti per poter realizzare quello che da tanto tempo speravo di fare. “Carne Fresca” è la cosa che mi sta più a cuore in questo momento, perché sono un fan del talento. Quando lo vedo in qualcuno mi commuove, letteralmente, e non mi aspettavo di trovare una così nutrita generazione di musicisti già così formati. Sono veramente tanti, c’è già una scena che non sa di esserlo, ma esiste ed è enorme. È come scoprire una miniera d’oro, per me è stato veramente un bellissimo colpo al cuore. Voglio fare tutto il possibile per dare più spazio e visibilità a questi ragazzi, perché nell’arco di due, tre, quattro anni saranno la nuova musica italiana. C’è la qualità, c’è il talento, c’è la capacità di scrittura, ma soprattutto c’è una fame pazzesca, un’energia meravigliosa.
Ti avevamo intervistato proprio prima che iniziasse il primo appuntamento da Germi qui a Milano, dove questa rassegna è stata presentata. “Carne Fresca” è dedicata ai musicisti e alle band emergenti e da allora ne sono passati tanti dal palco di Germi. Mi sembra che tu abbia confermato quello che dicevi nell’intervista di qualche mese fa: non è che te lo stavi inventando che ci fosse una scena. “Carne Fresca” non era una cosa forzata, era una conseguenza di qualcosa di reale e concreto.
Sì, assolutamente. Anzi, ci è proprio scoppiata in mano. Intanto l’idea non è mia, ma di Francesca Risi, anche se adesso io la sto portando avanti tipo Don Chisciotte. Francesca è una dei soci di Germi e un giorno ha detto: “Perché non facciamo questa cosa?”. Io ero un po’ scettico. Poi sono andato a vedere un paio di piccole rassegne di gruppi, ho visto che erano interessanti e mi sono convinto. Quando abbiamo aperto le iscrizioni, abbiamo ricevuto 700 richieste in due mesi e mezzo, una cosa pazzesca, e abbiamo messo in piedi un team di selezione per le prime scremature. Poi il messaggio che lanciamo è: per l’età che avete, se venite rifiutati una volta, tornate l’anno prossimo, perché a 15-17 anni si cresce a una velocità notevole, quello che non va bene quest’anno magari va benissimo l’anno prossimo. La cosa meravigliosa è che quando abbiamo cominciato questa rassegna, abbiamo ricominciato anche ad avere la fila fuori da Germi, il che vuol dire gente che si mette in coda per vedere band sconosciute. Questo è un sintomo della volontà e della sete del pubblico per cose nuove, per cose che non hanno ancora ascoltato, per qualcosa di diverso.
C’è un grande entusiasmo anche fra i musicisti, dove vedo e sento uno spirito, una complicità, che mi ricordano moltissimo la fine degli anni ’80, i primi ’90. Questa è una scena che secondo me ha bisogno di crescere al di fuori delle strutture che ci sono adesso, al di fuori dei media che in questo momento hanno il controllo dell’informazione, al di fuori delle case discografiche ufficiali. È una scena che deve vivere di vita propria, come è successo a quella degli anni ’90, per poter veramente offrire qualcosa di nuovo a livello musicale e anche a livello attitudinale. Io so come si fa: perché l’abbiamo fatto trent’anni fa e quindi, in un modo o nell’altro, spero di trasmettere questo tipo di esperienza.
Il fatto che tu ti metta così a disposizione di questa “carne fresca” non è affatto scontato e credo vada sottolineato. Mi hai anche raccontato che queste band passate dalla rassegna di Germi saranno sul palco degli Afterhours per il tour di “Ballate per Piccole Iene”, aprendo i vostri concerti: una scelta che dimostra ulteriormente come e quanto ti impegni per questi ragazzi…
Faremo un annuncio ufficiale tra poco con l’elenco delle band. Alla fine, su tutte le date che facciamo, ci saranno almeno più di 30 band, perché ne avremo due a data, più o meno. Sarà una bella rappresentanza di quello che sta succedendo adesso e tutte le occasioni che abbiamo per intrufolarci e riuscire a fare comunicazione su quello che sta succedendo nell’underground, le useremo, le stiamo usando.
Ancora una volta: penso di essere ambizioso nel fare questa cosa, non è mecenatismo cosmico. Vorrei veramente che si formasse una generazione diversa da quella che in questo momento sta passando sui media, diversa da quella che sta monopolizzando la musica in Italia, per motivi anche solo prettamente di gusto, ma secondo me anche per il tipo di messaggio e di energia che stanno trasmettendo questi ragazzi, che è necessaria in questo momento.
Intanto c’è aggregazione, quindi non è più “io, io, io” e basta, ma “stiamo insieme, collaboriamo”. Si scambiano i contatti, gli strumenti, le esperienze, i palchi, ed è una cosa che serve tantissimo in questo momento.
Visto che lo abbiamo citato, passiamo al prossimo argomento in scaletta: il tour per celebrare vent’anni di “Ballate per Piccole Iene”. Negli anni scorsi ci è capitato di parlare di un altro disco importante per la storia degli Afterhours come “hai paura del buio?”, che avete giustamente festeggiato. Il momento in cui nasceva “Ballate per Piccole Iene” era molto diverso: era un disco che portava con sé anche una serie di progetti ambiziosi, come l’idea di incidere un disco in inglese, come le collaborazioni con John Parish e con Greg Dulli. C’era una band che…vorrei che raccontassi tu com’era!
Diciamo che in quel periodo abbiamo avuto la grandissima occasione di girare il mondo, di fare diversi tour americani, europei e italiani. Abbiamo provato diversi modi di vivere la nostra musica: in Italia nei palazzetti, nei grossi club, nei grossi festival; negli Stati Uniti e in Europa, invece, in club molto più piccoli, spesso come opening di qualcun altro, spesso senza poter fare il soundcheck, con pochissimi tecnici dietro, invece che con tutto lo staff che in Italia caratterizzava le nostre produzionI. Abbiamo potuto vivere in maniera molto libera la parte musicale.
Il fatto di girare il mondo sicuramente ci ha tolto un sacco di complessi di inferiorità, perché ci siamo resi conto che tutti i preconcetti che avevamo, rispetto al modo in cui fanno la musica gli inglesi e gli americani, erano un po’ esagerati. I club in Inghilterra e negli Stati Uniti puzzano di vomito e di urina, non è affatto detto che abbiano dei mezzi superiori a quelli che abbiamo noi, anzi.
È stato bello girare col furgoncino, farsi le traversate coast to coast negli Stati Uniti, portarci gli amplificatori, affittarli sul posto e avere davanti un pubblico di persone che noi pensavamo preconcette nei confronti del rock italiano. Invece non era vero, siamo noi ad avere preconcetti. In America se suoni bene hai un tipo di risposta che non è quella del mercato, ma è quella del pubblico, quella delle fanzine. Abbiamo avuto delle recensioni veramente molto belle durante il tour americano.
Ma quello che è successo non è stato tanto: “Ah, gli italiani che vanno in America e riescono in un modo o nell’altro a farcela”, ma è stato riscoprire che potevamo ancora vivere un’avventura in un mondo che era diventato forse fin troppo professionale per noi.
Cosa ricordi della ricerca sul suono fatta per “Ballate per Piccole Iene”? Quali erano gli obiettivi che avevi e che avevate in studio? Dal mio punto di vista rimane un esempio molto interessante di grande omogeneità stilistica: suona come nella vostra storia ha suonato soltanto quell’album…
Probabilmente per la presenza di Greg Dulli, che è riuscito davvero a compattare tutte le tendenze che c’erano in quel disco, dandogli un suono, una personalità. C’è un po’ di black music, che per noi era una grande novità, e lui l’ha portata, l’ha fatta funzionare nel contesto di un gruppo rock che mai si era avvicinato a queste cose.
Però la parte live, la parte nostra, chiamiamola animalesca se vuoi, c’è sempre stata in quel disco, perché l’abbiamo registrato live in studio, a Catania, in uno studio nel centro della città. Ci abbiamo montato i monitor e abbiamo fatto un piccolo live all’interno dello studio di registrazione, suonando tutto in diretta. Ho rifatto solo le voci, e neanche tutte. Alcuni cori sono proprio quelli delle registrazioni live. Gli assoli non sono rifatti, sono quelli dei live che abbiamo registrato in studio.
È stata una cosa bella. C’era pure il vulcano che stava eruttando in quei giorni, quindi ci cagavamo anche un po’ sotto, ma c’era una grandissima energia in quei giorni.
Per riportare questo disco dal vivo vent’anni dopo, la tua scelta è stata di chiamare i musicisti con cui è stato realizzato. È in fondo un approccio che abbiamo visto anche in quel live che celebrava la storia dei 30 anni degli Afterhours, in cui hai voluto le diverse formazioni della vostra storia che si sono alternate sul palco del Forum di Assago. Vuoi raccontare qualcosa di questa scelta?
Ci sono tante motivazioni. La più grande è che io con gli Afterhours, da qualche anno, mi sentivo all’interno di un’azienda. Per carità, un’azienda creativa con bravissimi musicisti, non voglio enfatizzare certi aspetti, però era un posto dove le persone venivano un po’ a esprimere loro stessi, un po’ a portare avanti un progetto. Dovevamo programmare con sei mesi, un anno di anticipo, stabilire i tour, dovevo fare lo slalom in mezzo ai mille impegni di tutti, perché gli altri musicisti sono comunque molto creativi: in un modo o nell’altro, era difficile tenere in piedi tutta la baracca.
Quello è stato uno dei motivi principali. Ero stufo di dovermi organizzare le cose con mesi di anticipo. Ero stufo di non vedere una luce speciale negli occhi delle persone che suonavano con me, nonostante fossero persone di un certo livello musicale e creativo. Per questo ho fatto i tour solisti in questi ultimi anni.
Quando la Universal mi ha proposto di fare promozione per la ristampa di questo disco, per i vent’anni di “Ballate per Piccole Iene”, ho pensato che invece di fare promozione, fosse meglio pensare a un tour. È quel che sappiamo fare meglio, era quindi la scelta più sensata. Quando ho iniziato a pensare al tour per i vent’anni di “Ballate per Piccole Iene”, dopo sette anni di pausa degli Afterhours, mi è sembrato logico ricostruire la formazione di quel periodo.
Poi ho parlato con ognuno di loro e ho visto una luce negli occhi che erano anni che non vedevo. È stata la cosa che mi ha fatto decidere definitivamente di fare il tour con quella formazione, ho sentito una gioia nella reazione a questa richiesta che da anni non percepivo nella band.
Da fan degli Afterhours – e immagino che ce ne sia qualcun altro che si è fatto la stessa domanda – mi sono chiesto: sei curioso anche tu di sentire canzoni nate negli anni successivi a “Ballate per Piccole Iene” suonate da quella formazione?
La band che sarà in tour quest’estate ha fatto tutto “Ballate per Piccole Iene” e tutto “Quello che non c’è”, che sono due dischi abbastanza centrali per la storia degli Afterhours. Due dischi registrati live, in studio, con tanto di monitor, come raccontavo prima. Quindi quel repertorio, “Ballate per Piccole Iene” e i parecchi pezzi di “Quello che non c’è” che inseriremo in scaletta, l’abbiamo in mano.
Poi ci sono altre canzoni che vengono da dischi dove almeno una parte dei musicisti era presente. Una parte di questa formazione la troviamo anche in “Non è per sempre”, e poi sì, ci sono alcuni pezzi che saranno in scaletta che non arrivano dagli album incisi da questa formazione. Però anche in passato formazioni precedenti hanno suonato dal vivo dischi che non avevano registrato in prima persona.
Parliamo invece di un altro impegno dal vivo, quello che ti ha riportato sul palco di diversi teatri italiani per la seconda tournée di “Lazarus”, lo spettacolo scritto da David Bowie ed Enda Walsh, che portate in scena con la regia di Valter Malosti. Sarai agli Arcimboldi di Milano a partire dal 28 maggio fino all’1 giugno, in particolare. Com’è stato calarti nuovamente in una dimensione che per te era stata completamente nuova? Dopo un anno di pausa è stato naturale, semplice, tornare sul palco?
Ora sì. Due anni fa, quando ho iniziato a fare questa cosa, avevo un po’ di preoccupazioni. Però era un periodo di tale libertà mentale che è stata un’avventura bellissima. Abbiamo fatto 66 repliche due anni fa, girando per tutta Italia. La differenza fra un tour musicale e il teatro è che col teatro ti fermi in un posto per una settimana, dieci giorni, due settimane. Vivi proprio un altro tipo di viaggio: mentre col tour musicale ogni giorno sei in un posto diverso, col teatro ti fermi, vivi i posti, vivi le persone in quel luogo. È stata un’avventura straordinaria, ed è andata anche molto bene per i riscontri ricevuti: quell’esperienza è diventata un mio punto di riferimento.
Fra teatro, televisione, musica, radio, e ogni tanto anche qualche puntatina di un certo prestigio nel mondo del cinema, oggi ho una libertà creativa che non ho mai avuto in vita mia. Faccio quello che voglio e non dipendo da nessuno di questi ambienti, perché se va male in un ambiente, ho gli altri quattro. Sto vivendo questa cosa con una leggerezza che sognavo di avere. All’inizio non era così, per mancanza di mezzi, per tensioni ambientali – perché l’underground italiano negli anni ’80 era che ci dovevamo menare per suonare – quindi era tutto complicato. Poi ci sono le classiche diatribe da band, nelle quali cascano tutti prima o poi, sono inevitabili.
Quindi questo tipo di leggerezza non ce l’avevo da quarant’anni, da quando da ragazzino avevo messo in piedi la prima formazione degli Afterhours. Ed è una cosa molto preziosa, che non voglio perdere e che non voglio sporcare troppo con la progettualità. Tutte queste cose le faccio quando mi arrivano davanti. Non dico: “Faremo il teatro nel 2027”. Non ho programmi, non voglio avere programmi. Quando arrivano queste cose, le faccio sempre molto volentieri.
Sembra che lo spettacolo quest’anno, a detta di tutti, sia ancora più bello. Valter, il regista, l’ha reso ancora più lineare, la storia è più leggibile. Una storia comunque molto oscura, non c’è un plot, una linea conduttrice netta. È uno spettacolo emozionale, di energia, di emozioni, però è più leggibile la vicenda. Noi siamo migliorati tutti tantissimo, a detta di tutti, gli attori e i non-attori, come Casadilego e me. Poi la band è davvero straordinaria: Jacopo Battaglia, ex Zu e Bloody Beetroots; Stefano Pilia che ha suonato anche negli Afterhours, ma ha suonato con Mike Watt, anche con Paul McCartney, lo stronzo… (ridendo, ndr); Paolo Spaccamonti… Insomma, i musicisti sono pazzeschi. E infatti io mi diverto ancora ogni volta.
Avere un ruolo di interprete è diverso dal ruolo che hai quando sei sul palco con la tua band, quale che sia in quel momento la tua band. Quanto è diverso il tuo modo di entrare nella canzone?
Un po’ è diverso, ti direi migliore. I pezzi sono buoni, quindi voglio dire… (ride, ndr). Quello dà tanto, tantissimo: il fatto di riuscire a cantare quelle canzoni a modo mio era un po’ la sfida, ma senza farli diventare “miei”, perché avrebbe voluto dire rovinarli. Dovevo essere io a entrare in quelle canzoni. E’ stata una sfida e a detta di tanti ci sono riuscito bene, ma era soprattutto importante che ci credessi io.
Poi volevo assorbire tutto quello che potevo da questa esperienza anche a livello vocale, di suono della voce, perché ci sono tante cose che mi interessano che sono venute fuori lì, a teatro, cantando quelle cose in quella maniera, cose che in passato forse non avevo coltivato molto e che spero di portare con me per la musica che farò in futuro. E’ stata un’esperienza formativa, una scoperta anche dal punto di vista creativo.
Non avevo molta tensione nel confronto, perché Bowie non ha fatto questo spettacolo per recitarlo. L’ha scritto insieme a Enda Walsh perché fossero altri attori a interpretarlo, quindi non avevo il peso di dover essere Bowie. Non sono Bowie su quel palco, da copione sono un attore che deve interpretare i pezzi di Bowie. Questa cosa ha alleviato la pressione.
Poi sono un amante della musica di Bowie da quando ho 16 anni, ritengo di conoscerlo molto bene, e ho la fortuna di avere un timbro vocale non lontanissimo dal suo, quindi anche nell’interpretare certe cose non devo sforzarmi più di tanto. Non sono i Led Zeppelin, per dire, e anche questo mi ha aiutato molto.
Valter, il regista, per me ha avuto una grande intuizione a mettermi lì, perché mi riconosco al 100% con questo personaggio, con la storia, con quello di cui sta parlando: la lontananza dagli affetti, la lontananza da se stessi, da una casa metaforica, da un pianeta che è una metafora del tipo di mondo in cui volevo vivere, e che sognavo e mi immaginavo, le domande che ti fai sull’aldilà. Ho 59 anni, purtroppo sto cominciando a farmi queste domande, è inevitabile. Quindi ci sono tante cose che mi riguardano direttamente, che se avessi avuto vent’anni non sarei riuscito a interpretare.
Le domande che avevo anticipato nella scaletta di inizio intervista le abbiamo affrontate. Resta quella sui progetti per il futuro, che bisogna sempre fare, no? Hai parlato di leggerezza, di libertà, del fatto che in questo momento puoi fare solo quello che hai voglia di fare: è un messaggio che è arrivato forte e chiaro, e credo sia già sostanzialmente un pezzo di risposta. Però sappiamo entrambi che là fuori almeno un paio di domande se le stanno facendo: una è se ascolteremo presto un tuo disco nuovo, e poi…sì, credo che vogliano sapere se ti vedremo presto in televisione…
Comincio dalla seconda cosa dicendo che – e lo dico con grande arroganza – per i soldi che mi hanno offerto, molti di quelli che dicono che sono un venduto ucciderebbero tutta la famiglia. E lascio questa cosa in sospeso, così vedrete come andrà a finire. Però diciamo che ancora una volta ho fatto delle scelte che mi comprano la libertà di fare quel cazzo che voglio, dove voglio, quando voglio.
Uno dei miei progetti più grandi è di finire la musica che sto scrivendo in questi mesi e voglio avere la tranquillità necessaria per poterlo fare. L’altro grande progetto è “Carne Fresca”. Voglio avere la libertà e voglio anche divertirmi, non viverla mai come un altro impegno in calendario, ma sempre con entusiasmo.
Infine uno dei miei progetti per il 2026 è prendermi un anno sabbatico, quindi di vivere. Vivere vuol dire essere coerente con quello che ho sempre voluto, fare musica per fare quel cazzo che voglio nella vita, e non vivere per fare quello che voglio nella musica, che è veramente facile: basta fare quello che vuoi. Nella vita è molto più difficile e ho sempre concepito la musica come una via per riuscire a vivere come voglio. Negli ultimi anni ho fatto tantissime cose molto stimolanti e belle e sono un privilegiato: per questo posso fare questi discorsi, chiaramente. Però ho lavorato tanto per potermi meritare questo privilegio e credo che sia ora – finché c’è tempo, con i dovuti scongiuri – di usare la leggerezza e la libertà che posso avere per vivere, e vivere tantissimo. Non che non abbia vissuto, però voglio andare a vedere posti che non ho visto, voglio andare a trovare amici che non vedo da 30 anni. Voglio non avere impegni professionali, ma solo impegni di vita. E ce ne sono già tanti. Voglio vivere mia figlia, per esempio, che per carità, lo facciamo comunque anche alla distanza, però vorrei farlo meno alla distanza.