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“Così finii in Mongolia a spaccare pietre”

Ma Bo è uno scrittore, il suo pseudonimo è «Lao Gui», vecchio fantasma. Ha sessantasette anni. Ne aveva diciassette quando cominciò la Rivoluzione culturale. Figlio della scrittrice Yang Mo, è diventato famoso con il libro autobiografico Xuese Huanghun (Tramonto rosso sangue), che racconta dei suoi anni di rieducazione in una fattoria militare, dove era finito come «controrivoluzionario». È considerato un pioniere della «letteratura della ferita», la corrente che racconta gli anni della Rivoluzione culturale. Il suo nome di penna si riferisce proprio alla condizione di invisibilità a cui è costretto chi è condannato ai lavori forzati. Riabilitato, ha partecipato anche al movimento degli studenti del 1989, riparando poi in Francia e negli Stati Uniti. È tornato in Cina a metà degli anni Novanta.

 

Per me la Rivoluzione Culturale comincia nel 1966, quando Mao dice di spazzare via i niugui sheshen, i «demoni-mucca» e gli «spiriti-serpente», cioè i controrivoluzionari. Il 25 maggio, all’università di Pechino compare il primo dazibao scritto da una assistente di filosofia, Nie Yuanzi, che critica apertamente i «criminali controrivoluzionari» del comitato del Partito interno all’università. Tra questi, c’era anche Lu Ping, io ero amico di sua figlia, Lu Wei. Eravamo in terza superiore, vedevamo i più giovani che si agitavano e noi cercavamo di calmare un po’ gli animi, spiegando loro che Mao invitava a distinguere bene tra i nemici di classe e quelli che non lo erano. Poi, i gruppi di lavoro e di propaganda entrarono nelle scuole e sancirono che tutti i burocrati erano «erbacce». Non ci fu più nulla da fare.

Prima della Rivoluzione Culturale, nella mia scuola avevano ampliato un vialetto interno, per rendere più facile l’accesso alle biciclette. Quando arrivarono, i «gruppi» accusarono i quadri dirigenti di voler creare uno spazio sufficiente per consentire ai carri armati di entrare nella scuola e fare un golpe contro gli studenti.

Lu Ping veniva ogni tanto a parlare con i professori di Lu Wei, a un certo punto non lo si vide più. Lei, quando tornava a casa, non mangiava più con lui e non lo chiamava più «papà», bensì per nome: Lu Ping. Ciò nonostante, subiva sempre pressioni da tutti gli altri, in quanto figlia di un «controrivoluzionario». Ancora oggi, non parla a nessuno di quel periodo. La mia situazione era un po’ diversa. I miei non erano ancora considerati controrivoluzionari, anche se erano intellettuali. Provavo simpatia per Lu Wei e le scrissi un bigliettino. Me la fecero pagare, tempo dopo.

Noi eravamo considerati i più conservatori, quindi per far vedere quanto fossimo rivoluzionari cominciammo a denunciare, con le lacrime agli occhi, i nostri ex professori. Avrei dovuto andare all’università l’anno successivo, ma l’università non c’era più. A luglio del 1966 i gruppi di lavoro e propaganda uscirono dalle scuole e cominciò la guerra di tutti contro tutti. Si usavano i duilian, i componimenti poetici su rotoli di carta che si appendono ai lati e sopra le porte. Ne ricordo uno sulla discendenza di sangue, diventata ormai principio indiscutibile: «Bravi i figli dei vecchi eroi, marci i figli dei reazionari. È proprio così».

C’era anche la campagna contro i liumang, cioè i «delinquenti», che alla fine non erano altro che dei giovani poveri, disoccupati. Un ragazzino aveva accoltellato una guardia rossa e noi facemmo un raduno di centomila persone a Pechino che lo condannò all’ergastolo. Rischiò la pena di morte. Da lì cominciò la campagna. Facevamo spedizioni punitive che chiamavamo «sollevare il vento, scatenare incendi». Ci dicevano che in qualche posto c’erano dei piccoli delinquenti e noi arrivavamo e picchiavamo senza starci troppo a pensare. Io avevo diciott’anni, ero forte e rivoluzionario, parte della natura umana è libera e violenta, gode nel punire l’altro. Le guardie rosse erano spavalde, potevano fermare i veicoli per strada e farsi portare dove volevano.

Prima della Rivoluzione culturale non si poteva picchiare, poi divenne lecito, la Rivoluzione culturale ci consentiva di fare tutto ciò che era proibito. Picchiai una ragazza con una cinghia. Nessun senso di colpa, era il Quotidiano del Popolo che ci diceva di farlo. In realtà, chi comandava nelle assemblee e nelle bande erano sempre i figli dei militari, altro che operai e contadini! Questa storia andò avanti fino a novembre, con il Partito che se ne stava zitto, così noi ne combinavamo sempre di peggiori. Poi Chen Boda sancì che la discendenza di sangue non fosse poi così importante, ma a quel punto le cose erano andate troppo in là e molti non si allinearono. Allora Mao proclamò che il messaggio rivoluzionario avrebbe dovuto essere portato nelle campagne, «come la scintilla che incendia la prateria», e che «ribellarsi è giusto», quindi ci spedì fuori da Pechino e noi ne fummo pure contenti perché cominciammo a girare tutto il paese, gratis.

Era la campagna del chuanlian, lo scambio di esperienze. La sensazione era di gioia e curiosità perché cominciammo a girare tutto il paese. Non avevo mai viaggiato, andai a Xi’an, a Chengdu, Chongqing, Guiyang e in altri posti, girando a sbafo sui treni, con vitto e alloggio garantiti nei centri d’accoglienza per guardie rosse. Qualcuno andava per divertirsi, altri per fare la rivoluzione, ma non c’era molta organizzazione, andavi con chi ti pareva. Sul posto c’erano sempre due fazioni: chi sosteneva i poteri locali e chi li voleva detronizzare.

I miei genitori erano sempre stati piuttosto freddi e severi. Mia madre era una scrittrice, mio padre il vicepreside della Normale di Pechino, mi avevano sempre detto di seguire Mao e basta. Cominciai a considerare anche mia madre una borghese, perché si vestiva bene, metteva il profumo ed era famosa. Quando furono accusati pure loro di essere controrivoluzionari non mi dispiacque molto e me ne andai in Vietnam a combattere gli americani. Volevo sacrificarmi sul campo di battaglia.

Il chuanlian era finito e non ci facevano più viaggiare gratis, non potevo dire ai miei che volevo sacrificarmi. Allora con i miei amici scassinai l’armadio in cui mia madre teneva i soldi, rubai 300 yuan e andammo in Yunnan. Da lì, passammo clandestinamente in Vietnam. Diverse guardie rosse erano già morte sotto le bombe americane. Eravamo stravolti e non mangiavamo da giorni, i vietnamiti ci trovarono allo stremo e ci dissero: «Grazie, ma non è il caso». Ci consegnarono alla guarnigione cinese. I soldati ci spiegarono: «Guardate, Zhou Enlai ha detto che l’intenzione è giusta, ma non vorremmo creare problemi diplomatici». Ci rifocillarono, ci fecero riposare e poi ci rispedirono indietro. A Pechino era cominciata la guerra tra bande. Fecero la loro comparsa le armi. Allora, ci si preparava a una guerra contro l’Unione Sovietica, volevo organizzare un gruppo di patrioti, per difendere il paese. Andava di moda un romanzo proprio russo, La giovane guardia di Alexandr Fadeev, pensammo che delle pistole ci avrebbero fatto comodo.

Entrambe le fazioni delle guardie rosse avevano sostegno nell’esercito e c’era chi permetteva loro di entrare negli arsenali ad armarsi. Due amici andarono nello Henan e tornarono con un paio di Mauser tedesche. Ma il nostro gruppetto era composto da tre e io decisi allora di recarmi a trovare uno zio dello Hubei che era un quadro militare e che aveva una pistola. Gliela fregai e tornai a Pechino, ma nel frattempo lui mi aveva denunciato e così ci arrestarono tutti e ci sbatterono in galera.

Ci restai settantacinque giorni tra l’aprile e il giugno del 1968, senza sapere che fine avrei fatto. Era terribile, mi davano da mangiare due panini di mais al giorno, svenni per la fame due volte. Quelli che erano stati dentro un anno o due erano diventati degli scheletri. Ero distrutto, cominciai a scrivere a casa usando il dentifricio, non riuscivo a stare in piedi per andare a pisciare. Alla fine mi fecero uscire, ero così dimagrito che, tornato a casa, non facevo che mangiare e cominciai a recuperare un chilo al giorno. Mia madre finse di essersi dimenticata la faccenda dell’armadio svaligiato, mio padre mi rimproverò e mi garantì venti yuan al mese purché tornassi a scuola, dato che gli insegnamenti erano ripresi.

A quel punto cominciò il movimento per spedire gli studenti in campagna «a imparare dai contadini». Il nostro gruppetto di sei amici non si iscrisse alle liste ufficiali, andammo da soli e spontaneamente in Mongolia Interna, perché per essere bravi eroi bisognava andare nel posto più remoto e più vicino al confine russo. Ma siccome non comparivamo negli elenchi, non ci presero, perché non c’era abbastanza da mangiare anche per noi. Allora andammo a dormire in una scuola e lì conoscemmo il figlio del capo della regione militare. Scrivemmo una lettera usando come inchiostro il nostro sangue, chiedendo a suo padre di farci rimanere lì come «intellettuali che imparano dai contadini».

Alla fine, restai in Mongolia Interna quasi otto anni. Il Partito comunista locale era accusato di separatismo, allora noi, che facevamo parte della fazione dei ribelli, venivamo stimolati da Pechino a criticare i quadri locali. Eravamo odiati da tutti, sia soldati sia pastori, perché non perdevamo occasione per denunciare. Eravamo un centinaio di guardie rosse. Poi la situazione si fece insostenibile, tutto era bloccato, e Zhou Enlai mandò l’Esercito Popolare di Liberazione per mettere le cose a posto. A quel punto fummo accorpati all’esercito, che per noi era un mito, ma ben presto scoprimmo che eravamo stati dei poveri ingenui. Costruivamo trincee e baracche militari per preparare la guerra contro l’Urss e se prima eravamo liberi di fare quello che ci pareva, adesso eravamo invece sottoposti a rigida disciplina.

Mao aveva detto che «il Partito è come una porta aperta» che accetta le critiche, così noi cominciammo a mandare lettere in cui denunciavamo tutte le cretinate che facevano i capi militari: obbligavano i pastori locali a scavare pozzi per l’acqua dove l’acqua non c’era, dicevano di avere piantato alberi di cui non si era mai vista traccia. All’inizio erano gli stessi quadri locali a dirci «fate bene a scrivere e a criticare ciò che non funziona», poi il movimento di critica finì. Mi provocarono insultando la mia famiglia e io reagii, scoppiò una rissa. Ci pestarono a sangue e ci ammanettarono, dissero che ascoltavamo di nascosto Voice of America e tirarono fuori la mia vecchia lettera a Lu Wei per denunciarmi come controrivoluzionario.

Rimasi a spaccare pietre in Mongolia Interna fino al 1975, quando mia mamma – scrivendo a Zhou Enlai – ottenne per me il perdono.

 

L’articolo è tratto dallo Speciale di China Files sul cinquantesimo anniversario della Rivoluzione culturale.

  • Autore articolo
    Gabriele Battaglia
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