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Liberismo a targhe alterne a Pechino

Il grande tema che ormai da tempo la Commissione Europea sta dibattendo verte su una domanda apparentemente retorica: la Cina è o non è un’economia di mercato? In queste settimane la Commissione dovrà formulare una proposta in tal merito al Consiglio e al Parlamento Europeo. Dalla risposta che non solo l’Europa, ma anche gli Stati Uniti e tutti gli altri membri del WTO sono chiamati a dare a questa domanda dipenderà molto del futuro dell’occupazione e dell’economia globale.

Nel 2001, quando la Cina fu ammessa nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, si stabilì un termine di 15 anni entro il quale accettare a pieno titolo il Paese nel club delle economie di mercato. In pratica, questa riserva ha permesso di mantenere alte alcune barriere protettive nei confronti dell’export cinese a tutela della produzione industriale del resto del mondo. Non mancavano certo i motivi per dubitare delle caratteristiche del mercato cinese. Un mercato con una rigorosa programmazione centralizzata, controllato da uno Stato marcatamente interventista in termini di costo del lavoro, investimenti, costo dell’energia, difesa del mercato interno.

I sospetti, più che confermati, del frequente ricorso cinese alla pratica illegale del dumping, cioè della vendita sottocosto di determinati prodotti grazie a forti sovvenzioni per scardinare i mercati concorrenti, hanno permesso di intervenire a difesa – per esempio – del residuo settore industriale siderurgico e tessile degli Stati occidentali. La seconda conseguenza per Pechino sono stati i dazi che hanno penalizzato le sue merci in uscita, aumentati per compensare i bassi costi di produzione locale confrontati a quelli di un paniere di paesi esteri.

In questi 15 anni la Cina ha saputo aspettare pazientemente, accumulando una gigantesca capacità produttiva, definita tecnicamente overcapacity. E ora freme per riversare la sua produzione sul resto del mondo. I numeri calcolati da recenti studi hanno mandato nel panico l’Unione Europea, e in particolare l’Italia. Secondo l’Economic Policy Institute, infatti, la fine delle barriere protettive nei confronti della Cina porterebbe a una perdita annua tra 1 e 2 punti percentuali del PIL europeo, a circa 2 milioni di disoccupati e a un deficit con il commercio tra Europa e Cina di 185 miliardi di dollari USA all’anno. Una batosta che si concentrerebbe soprattutto su Germania e Italia, Paesi dai quali scomparirebbe ciò che resta dei comparti siderurgico e tessile.

Il punto, dunque, sarebbe stabilire fino a che punto la Cina non rispetti ancora gli standard delle economie di mercato per quanto riguarda libera concorrenza e ruolo dello Stato. Ma non si può fare a meno di notare che i Paesi europei, liberisti a parole, nella pratica continuano a sfruttare fino all’osso ciò che resta del vecchio protezionismo.

Un’altra riflessione riguarda invece il nodo irrisolto dei rapporti tra l’UE e la Cina. I problemi dell’apparato produttivo europeo determinati dall’emergere della potenza asiatica hanno radici ormai antiche, ma restano sempre attuali. La diplomazia commerciale europea ha ignorato l’argomento rimandandolo a tempi mai precisati, preferendo nel frattempo impegnarsi nel negoziato con gli Stati Uniti per la creazione del TTIP, il Partenariato trans-atlantico per il commercio e gli investimenti. Un’operazione discutibile e dagli impatti economici molto, molto più modesti rispetto alla posta in gioco con la Cina. Tra l’altro dopo la Brexit e con l’avvicinarsi della fine del mandato di Barack Obama alla Casa Bianca, il TTIP è stato praticamente messo in freezer.

Non vi è dubbio, quindi, che per l’Europa sarebbe un’assoluta priorità negoziare con Pechino per ripianare le differenze, giocando anche su un rapporto di forze più favorevole rispetto a quello che si può mettere sul piatto nelle trattative con gli Stati Uniti. Ma così non sarà, la Commissione ha partorito una “terza posizione” (tra quella aperturista e quella conservatrice dello status quo attuale). In buona sostanza non si pronuncerebbe sulla Cina in particolare, ma abolirebbe l’elenco dei 15 paesi considerati “non a economia di mercato” tra i quali la Cina. Questa “sanatoria” dovrebbe essere accompagnata da un irrigidimento delle misure anti dumping e di difesa commerciale. Tradotto, non ci importa più se la Cina è o meno un’economia di mercato, ma a prescindere ci teniamo le nostre barriere commerciali a tutela del lavoro e della produzione europea. Infatti in questo modo l’impatto negativo per l’Europa sarebbe facilmente assorbibile. Una posizione adeguata ai tempi che corrono, con il ripiegamento su se stessi dei maggiori player dell’economia globale e l’avanzata di leader politici che in nome della tutela del lavoro e dell’economia nazionale stanno mettendo in discussione gli equilibri politici degli ultimi 30 anni. Per la Commissione sarebbe una soluzione ancora sostanzialmente perdente: si continua a non considerare la proverbiale capacità cinese di sapere aspettare e di adeguarsi alle regole degli altri.

  • Autore articolo
    Alfredo Somoza
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