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L’Europa secondo il blocco di Visegrád

La crisi migranti è sempre nell’agenda dei quattro del gruppo di Visegrád, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Polonia, che intendono proporre il loro modello di gestione del problema, data quella che considerano inadeguatezza delle politiche comunitarie in questo campo. La critica all’Unione europea è netta: secondo il ministro degli esteri ungherese Péter Szijjártó, il problema dell’immigrazione illegale è troppo grave perché l’Unione continui a essere, almeno da un anno, prigioniera del “politicamente corretto” che impedisce di fatto di guardare in faccia la realtà e porta alla stigmatizzazione di coloro i quali dicono come stanno realmente le cose”.

Szijjártó afferma che invece il governo ungherese dice da sempre quello che pensa e fa quello che dice; a suo avviso i fatti dimostrano che in questa crisi l’unica via percorribile è quella seguita e indicata dall’Ungheria che dall’inizio dell’emergenza si è posta il problema della sicurezza. Il governo guidato da Viktor Orbán sostiene che l’unica possibilità di salvare l’Europa dall’ondata migratoria è difendere i confini nazionali e quindi quelli di Schengen, e che tutti i paesi membri devono fare così se hanno veramente a cuore il destino dell’Europa.

Insieme agli altri tre di Visegrád, l’Ungheria rappresenta il no del blocco europeo centro-orientale agli orientamenti comunitari in termini di immigrazione. Con il governo di Beata Szydło la Polonia ha dato luogo a un’evidente svolta a destra e ad alcuni provvedimenti simili a quelli presi anni fa da Budapest. All’inizio di gennaio Orbán ha incontrato nel sud della Polonia Jarosław Kaczyńsky, leader del partito governativo Diritto e Giustizia (PiS) per parlare di immigrazione, individuare una tattica comune contro le politiche dell’Unione europea giudicate permissive e inadeguate in ambito migranti, e rafforzare la cooperazione all’interno del gruppo di Visegrád e il suo ruolo nel Vecchio Continente. Nel mentre le autorità slovacche reagivano agli incidenti di Colonia annunciando di non voler più accogliere migranti musulmani.

Il governo del Paese si prepara alle elezioni politiche in programma per il 5 marzo ed è impegnato in una campagna elettorale che l’ha visto giocare la carta della sicurezza nazionale e del rifiuto della politica delle quote. Anche per Praga la crisi migranti deve essere affrontata dando centralità al problema della sicurezza del territorio e dei suoi abitanti. Per il primo ministro Bohuslav Sobotka l’emergenza può essere affrontata solo con una cooperazione a livello europeo, senza iniziative isolate. A suo parere l’Unione deve aiutare le persone e le famiglie che scappano da guerre e persecuzioni ma senza mettere in pericolo la sua sicurezza.

Secondo un sondaggio effettuato a dicembre dall’istituto CVVM, il 60% dei cechi non ritiene sia il caso di accogliere profughi provenienti da Paesi in guerra. Il 30% si dice favorevole all’ospitalità ma solo a patto che i profughi vengano rimpatriati appena le condizioni cambiano nei loro paesi di provenienza. Ed è di nuovo il ministro degli esteri ungherese Szijjártó ad affermare che i paesi dell’Unione non devono garantire ai profughi un futuro in Europa ma aiutarli a ricominciare a vivere una vita normale a casa loro.

Lo scorso tre febbraio il capo della diplomazia ungherese ha visto a Budapest il suo omologo Witold Waszczykowski e a fine incontro ha parlato di comunanza di interessi tra i due Paesi; successivamente ha sottolineato il rapporto di amicizia fra i membri del Gruppo di Visegrád. Quest’ultimo si riunirà a Praga in un vertice straordinario che avrà luogo il prossimo 15 febbraio. Secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa ceca ČTK, nell’occasione i leader dei quattro Paesi discuteranno la proposta ceca di creare una linea di frontiera di riserva che se dovesse passare lungo il confine di Bulgaria e Macedonia, i cui leader sono attesi a Praga, limiterebbe il ruolo della Grecia nella protezione dei confini di Schengen. I quattro considerano infatti insufficiente l’impegno ellenico. Per il primo ministro slovacco Robert Fico, Atene non rispetta i compiti previsti dal trattato.

Osservatorio Sociale Mitteleuropeo

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    Massimo Congiu
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    Società Civile per il No. È nato il comitato, promosso da vari esponenti della società civile, da sindacati, associazioni e realtà democratiche, che sostiene le ragioni del No al referendum costituzionale sulla riforma della Giustizia del Guardasigilli Carlo Nordio. Presieduto da Giovanni Bachelet, il comitato ha nel direttivo nomi importanti come il segretario della Cgil Maurizio Landini, la presidente di Libertà e Giustizia Daniela Padoan e l’ex ministra Rosy Bindi. I principali punti del comitato vertono sul fatto che una magistratura autonoma, indipendente, che non guarda in faccia a nessuno sia una cosa che conviene ai cittadini. Il prossimo 10 gennaio a Roma si terrà la prima assemblea generale, per la partenza della campagna referendaria, che vedrà la nascita di comitati territoriali in tutta Italia per lanciare una campagna informativa sulle ragioni del No. “Riteniamo che sia una battaglia per evitare che venga minato un principio fondamentale della nostra democrazia”, ha detto Rosy Bindi, che fa parte del direttivo del comitato, nella nostra trasmissione Radio Sveglia. L'intervista di Alessandro Braga.

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