Approfondimenti

Le figlie di Giuseppe Pinelli: “Ecco perché è importante continuare a testimoniare”

Intervista a claudia e Silvia Pinelli

In occasione del 52esimo anniversario della morte di Giuseppe Pinelli, Lorenza Ghidini e Roberto Maggioni hanno intervistato le figlie, Claudia e Silvia.

In queste ore quel 15 dicembre di 52 anni fa pensavate ancora che Pino sarebbe tornato a casa?

CLAUDIA: Eravamo bambine, avevamo 8 e 9 anni e credevamo che sarebbe tornato. Nostra madre ci ha detto: “Gli faranno prendere un bello spavento e poi lo faranno tornare a casa”. Non lo avremmo più rivisto. Eppure ci accompagna da 52 anni. Oltre a noi Giuseppe Pinelli accompagna tante altre persone che hanno raccolto i suoi valori e continuano a portarli avanti.

Cosa ricordate di quella giornata?

SILVIA: Il 15 dicembre alle 9:30 telefonarono dalla questura per dirci di avvisare in ferrovia che Pino non sarebbe potuto andare a lavorare. Alle 14:30 telefonarono di nuovo per avvisarci che nostro padre si trovava in stato di fermo. Alle 22:00 ci richiamarono per chiederci il libretto ferroviario di Pino e alle 11:00 vennero a ritirarlo. All’ 1:05 due giornalisti si presentarono a casa nostra e dissero a nostra madre: “Deve essere successa una disgrazia a suo marito. Sembra che sia caduto da una finestra”. A quel punto Licia corse al telefono. Il centralino le passò subito l’ufficio del commissario Calabresi. Lei disse: “Sono Licia Pinelli. Dov’è mio marito?” Lui rispose che Pino si trovava al Fatebenefratelli e quando nostra madre chiese perché non fosse stata avvisata Calabresi rispose: “Ma sa signora, abbiamo molto da fare”.

Vostra madre ha avuto la forza di trasformare un dramma personale in una questione politica, una ricerca di giustizia e verità. Oggi la verità, più o meno, l’abbiamo ottenuta. La giustizia per Pino, invece, non è mai arrivata. In tutti questi anni di battaglia vi ha mai parlato dei suoi rimpianti o di cosa avrebbe voluto fare diversamente?

CLAUDIA: L’abbiamo sentita parlare anche di questo, ma lei ha fatto tutto quello che poteva. In quel momento era molto disorientata. Ha parlato con l’avvocato degli anarchici che le ha consigliato di non andare in questura, perché poteva sembrare che si stesse preoccupando per Pino. Fu nostra nonna Rosa a recarsi in questura. In quei momenti ti fidi di quello che ti viene detto. Sei catapultata in una storia più grande di te. Cerchi di capire come muoverti, aspetti. Sei convinta che le cose non precipiteranno e invece precipitano. La vita non è qualcosa di lineare, è piena di ripensamenti, rimpianti e rabbia. Nostra madre ha avuto la forza di tradurre una morte e la distruzione di tutta la sua vita in qualcosa di propositivo. Licia ha trovato il modo di resistere e non farsi annientare, di farci avere speranza, di aiutarci a diventare adulte e fare le nostre scelte.

Vostra madre ha collaborato con il fondatore di Radio Popolare Piero Scaramucci alla scrittura del libro “Una storia quasi soltanto mia”. Quella per Scaramucci fu un’intervista molto difficile…

Silvia: Mia madre decise di raccontare quello che aveva vissuto dieci anni dopo la morte di Pino. È stato difficile per lei tirare fuori quello che aveva tenuto dentro per così tanto tempo. Ciò che lei e Scaramucci si raccontavano durante l’intervista veniva registrato, ma durante la trascrizione Licia cercava continuamente di tagliare parti delle loro chiacchierate. È stato necessario che Piero si arrabbiasse per convincerla ad essere più collaborativa. Molto di quello che è emerso dopo si deve anche al lavoro fatto da Piero.

Per tanti anni Licia ha condotto la sua battaglia da sola o insieme a pochi compagni. A un certo punto avete deciso di prendere in mano il testimone della memoria. Quando è avvenuto questo passaggio?

Claudia: L’importante per noi era che qualcuno rappresentasse Pino. Dopo aver scritto il libro con Scaramucci nostra madre ha cominciato a rifiutare gli incontri pubblici. Nel corso degli anni sono successe tante cose. Tra le più importanti c’è sicuramente l’incontro al Quirinale con l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano del 9 maggio del 2009. Dopo quell’incontro ci siamo resi conto che la storia di Pino era stata sdoganata e che se ne poteva parlare più liberamente. Purtroppo abbiamo anche rischiato di finire invischiate in  discorsi fuorvianti di memoria condivisa e di pacificazione in mancanza di una verità.
La vedova del commissario Calabresi e quella di Giuseppe Pinelli in quell’occasione si sono strette la mano, ma ciò non significa che tutto è finito in quel momento. Le famiglie non c’entrano. La verità è la cosa importante. Poi hanno ricominciato a mettere le mani nella nostra storia, a cercare di stravolgere la verità storica che avevamo faticosamente conquistato grazie anche al lavoro di tante persone che si sono messe in gioco con grande coraggio. Ecco dov’è nata la necessità di continuare a testimoniare. Attraverso la nostra testimonianza cerchiamo di portare avanti i valori che hanno retto la nostra famiglia finora: la ricerca della verità e della giustizia.

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