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Le donne dicono no al femminicidio

“Ni una menos”. “Se della mia vita non vi importa, producete senza di me”. Stesso slogan, stessa rabbia, stessa voglia di chiedere un cambiamento. E’ un sentimento di ribellione che va da Città del Messico a Buenos Aires, da Santiago del Cile a Tegucigalpa (capitale dell’Honduras ndr), quello delle donne dell’America Latina, stanche di essere vittime di femminicidio. A far scattare la molla della rivolta è stato l’omicidio brutale di Lucia Perèz, la sedicenne drogata, violentata per ore e impalata in Argentina. Per il suo assassinio sono stati arrestati tre uomini ma il caso ha fatto discutere.

Alle 13 di mercoledì ora argentina (le 20 in Italia), in molte si fermano per un’ora durante il proprio lavoro, qualunque sia, qualunque cosa stiano facendo. Chi non potrà proprio farlo, si vestirà di nero e di viola mentre un corteo partirà dall’obelisco, lungo l’avenida 9 de julio per arrivare, poi, alla Casa Rosada, sede della presidenza, nella Plaza de Mayo. Accademiche, giornaliste, collaboratrici domestiche.

In Messico, così come in Argentina, in Cile e in Honduras c’è una crisi umanitaria di cui nessuno parla” – racconta a Radio Popolare Emanuela Borzachiello, ricercatrice all’Università di Città del Messico. “Secondo i dati -aggiunge – in Messico ogni giorno muoiono 7 donne, in Argentina viene ammazzata una donna ogni 30 ore. Negli ultimi quattro anni, in Messico il femminicidio è aumentato del 46 %, in Argentina del 30 % ma i dati non sono attendibili, perché ci sono vittime che sfuggono alle indagini, come quelle clandestine o quelle uccise dalle pandillas, che non vengono denunciate per paura di ritorsioni perché non c’è nessuna protezione da parte dello Stato.

Quello che emerso negli ultimi tempi è che la violenza sulle donne è diventata interclassista: può colpire una donna delle periferie come nel quartiere più ricco di Buenos Aires e questo anche perché l’indice di impunità è altissimo. Superiore al 90% addirittura. “Delle 7 donne che sappiamo giù che moriranno per mano di un un uomo – ha detto ancora Emanuela Borzachiello – sappiamo già che solo lo 0,5 dei casi sarà risolto, se tutto va bene, e per di più dopo una lunga e sofferta battaglia delle famiglie.

Accademiche, colf, femministe, attiviste delle Ong. Si sono unite tutte in una grande rete inter-statale che portare all’attenzione del mondo la nuova geopolitica del crimine autorizzato e della violenza sul corpo delle donne. “E’ una situazione difficile da far capire – ha spiegato Emanuela – perché questi Paesi da fuori sono visti come democratici, ma quello che sono da dentro non rispecchia la visione europea, l’immagine delle cartoline turistiche”.

Insieme, queste donne vogliono far capire come muoiono, dove sono state assassinate le loro sorelle, madri e amiche, per scoprire che proprio nei luoghi dove si trovano il maggior numero di corpi c’è la maggior concentrazione di criminalità.

La battaglia del Cile, poi, è ancora più importante, perché viene considerato femminicidio solo se succede all’interno delle mura domestiche. Le donne hanno chiesto che venga considerato lo stesso crimine anche se avviene per strada, durante una violenza sessuale.

  • Autore articolo
    Bianca Senatore
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    Nel giorno mondiale contro la violenza sulle donne, raccontiamo con Cristina Carelli, presidente di D.i.Re Donne in Rete contro la violenza, i centri antiviolenza, oltre 110 in Italia con differenze però tra Nord e Sud, con quasi 4mila operatrici in stragrande maggioranza volontarie e quasi 30mila donne “ascoltate” all’anno. “Siamo realtà aperte e sempre presenti, le donne arrivano da noi spesso senza appuntamento e si rivolgono a noi quasi sempre liberamente - spiega Carelli - perché il presupposto del nostro intervento è la libertà di scelta della donna, lo sottolineiamo perché è in corso un tentativo di trasformarci in realtà di servizio e per imporre alle donne dei percorsi standardizzati, più istituzionali e di sistema, e non costruiti per ciascuna partendo dal consenso e dalla libera scelta di ogni donna”. Sottofinanziamento, soluzioni solo punitive, negazione della dimensione politica e culturale della prevenzione, la frontiera è sempre la società. Se sono le famiglie a decidere cosa è giusto o meno per l’educazione sessuale, stiamo riproponendo il problema. “Chiediamo al governo di essere coerente: bisogna lavorare sul fronte della cultura e della prevenzione”. La violenza non è solo un atto individuale, ma è resa possibile da scelte politiche e culturali che limitano la libertà delle donne, scrive Di.Re nella campagna “Tutto nella norma” che potete trovare sul sito: direcontrolaviolenza.it

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