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L’accordo che non c’è

Sono sempre i dettagli a fare la differenza. Ancora di più nel primo summit tra 34 Paesi africani e i 28 Paesi dell’Unione europea (con qualche defezione) per la gestione dei flussi migratori. Il dettaglio, in questo caso, è il modo in cui si declineranno i cinque punti (“Cause del fenomeno; immigrazione legale; protezione; lotta al traffico di esseri umani; ritorno e riammissione”) con i quali è stato convocato il Summit sull’immigrazione di La Valletta, che si chiude il 12 novembre. In gioco ci sono priorità e sensibilità diverse: da un lato l’Europa a caccia di soluzioni pragmatiche, facili da comunicare e precise; dall’altro l’Africa, assetata di notorietà sulla scena internazionale. E di soldi.

La lotta ai trafficanti di uomini e la ricerca di nuove strade per potenziare l’immigrazione regolare scaldano i cuori di tutti. L’accordo è unanime: lo si legge dall’assonanza delle parole del Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e dei leader africani come Macky Sall, presidente del Senegal che rappresenta anche i Paesi dell’Ecowas (Economic Community Of West African States), la wannabe Unione Europea d’Africa. Gli stessi, però, si scoprono in disaccordo quando Tusk afferma che “l’immigrazione legale non è per tutti”. Su Twitter ci mette il carico sull’ultimo tema dal summit, i rimpatri: “Il ritorno volontario è sempre preferibile. Ma quando non è possibile, il ritorno non volontario (forzato, ndr) è un pre requisito per una politica migratoria ben gestita”.

La più diretta critica a questa posizione dei Paesi europei arriva da Nkosazana Dlamini-Zuma, ex moglie dell’attuale presidente del Sudafrica, Jacob Zuma, nonché portavoce dell’Unione Africana. “Siamo preoccupati per la crescente tendenza a trasformare l’azione militare in una soluzione”. Il riferimento è alla militarizzazione delle frontiere africane ovunque pur di intercettare i migranti. “Se non si investirà in futuro e speranza, i giovani continueranno a scappare dall’Africa”, ha aggiunto. Questi saranno i punti sui quali gli sherpa saranno costretti a lavorare tutta la notte: il primo giorno, dicono fonti dell’Unione, il lavoro si è chiuso alle cinque del mattino

Finora il risultato certo del summit sarà il fondo fiduciario di emergenza per l’Africa, il Trust Fund, che conterà in tutto 1,8 miliardi di euro. Una cifra ridicola se si pensa ai Paesi che deve aiutare per cinque anni (10,5 milioni di euro). L’entità dell’aiuto ha fatto scandalo tra gli africani soprattutto perché la Turchia, altro Paese chiave per cambiare i flussi di migranti verso l’Europa visto che ne accoglie circa 2 milioni, riceverà sola 3 miliardi di euro.

“L’Emergency Trust Fun d vuole affrontare questioni enormi in tempi rapidi – dichiara la responsabile delle politiche sull’immigrazione di Oxfam International Sarah Tesorieri – si comporta come un fondo per le emergenze umanitarie ma si finanzia con i soldi della cooperazione internazionale”. Non è un tecnicismo: qual è l’obiettivo dell’Europa attraverso questo fondo? La domanda resta sempre aperta. Soprattutto se ne potranno beneficiare anche Paesi impresentabili come l‘Eritrea.

Solo Francois Hollande, il presidente francese, nel corso dei discorsi pubblici ha riservato qualche parola per la Corea del Nord dell’Africa, il secondo Paese più militarizzato al mondo, dove si vive con dieci al giorno in cinque-sei per famiglia. Hollande ha detto che l’Unione Europea deve mantenere la “massima pressione politica e diplomatica nei confronti dei leader eritrei senza scrupoli”. L’Eritrea “si sta svuotando dei suoi stessi abitanti”, ha ricordato Hollande.

Fuori da Malta, però, pare tirare sempre la solita aria nei confronti dei migranti. All’elenco dei costruttori di muri si è aggiunta la Slovenia, che lo ha eretto per fermare chi risale la rotta balcanica. Nel contempo, il Paese ha annunciato di aver raggiunto il record assoluto di 1,2 milioni di transiti di migranti nel Paese.

  • Autore articolo
    Lorenzo Bagnoli
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    Nel cinquantenario della morte di Šostakovič il Teatro alla Scala inaugura la Stagione con il suo capolavoro Una lady Macbeth del distretto di Mcensk, tratto dal racconto di Nikolaj Leskov in cui una giovane sposa con la complicità dell’amante uccide il marito e il tirannico suocero, ma viene scoperta e finisce per suicidarsi in Siberia, tradita da tutti. Dopo il debutto a San Pietroburgo, l’opera, che avrebbe dovuto essere il primo capitolo di una trilogia sulla condizione della donna in Russia, ebbe enorme successo in patria e all’estero. Stalin assistette a una rappresentazione a Mosca nel 1936; due giorni dopo apparve sulla Pravda la celebre stroncatura dal titolo “Caos invece di musica” con cui il regime metteva all’indice l’opera e il compositore. Anni dopo Šostakovič preparò una nuova versione che andò in scena a Mosca nel 1963 con il titolo Katarina Izmajlova, dopo che il sovrintendente Ghiringhelli aveva invano cercato di ottenerne la prima per la Scala. Oggi il Teatro presenta la versione del 1934 con la direzione del M° Chailly e il debutto del regista Vasily Barkhatov. Ascolta Riccardo Chailly nella presentazione dell’opera.

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    Il trumpismo fa paura. L'autoritarismo trumpista ancora di più. A Pubblica la prima sintesi degli incontri alla Casa della Cultura di Milano per il ciclo "Autoritarismi in democrazia" (Osservatorio autoritarismo, Università Statale Milano, Libertà e Giustizia, Castelvecchi) di cui Radio Popolare è media partner (qui il programma https://www.libertaegiustizia.it/2025/11/21/autoritarismi-in-democrazia/). Ospite del primo incontro (22 novembre 2025) la filosofa Chiara Bottici, della New School for Social Research di New York. «Il clima negli Stati Uniti – ha raccontato la filosofa - è estremamente allarmante, estremamente preoccupante. Quando parlo di neofascismo non è un'esagerazione, non è un modo per dire "questi sono cattivi, Trump è autoritario"».

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