
Il discorso di Donald Trump a Fort Bragg sembrava un comizio elettorale. Ma non lo era. Il presidente ha parlato di fronte a centinaia di soldati in una delle basi dell’esercito più importanti del paese. Non cercava semplicemente il loro consenso. Voleva essere sicuro che fossero persuasi della sua narrazione dei fatti di Los Angeles; convinti di quanto fossero pericolosi questi nemici, gli immigranti; gente, ha detto, pagata dall’estero per provocare incidenti. Non è stato un comizio elettorale; è stato un discorso d’ indottrinamento. La plastica rappresentazione del tentativo di trasformare le forze armate degli USA in uno strumento del trumpismo, di mutare il loro ruolo da istituzionale a politico. Donald Trump non solo vuole uomini e donne a lui fedeli nei posti chiave; vuole che l’apparato statale sia fedele a lui. E’ presto per dire se lo raggiungerà, ma ormai è chiaro a tutti che questo è il suo obiettivo. Il Dipartimento di Giustizia e l’Fbi sono gli strumenti per minacciare i nemici politici; il Pentagono e i militari, come insegna Los Angeles, per mantenere l’ordine dopo aver sparso il caos. Tornato alla Casa Bianca, Trump ha messo uno yes man al Pentagono, Pete Hegseth. Non poteva fare l’errore del primo mandato, quando gli allora segretari alla difesa (furono più di uno) e i generali, lo fermarono quando chiese di impiegare l’esercito contro i manifestanti. Con Hegseth al comando, la strada era spianata: sono arrivate le purghe degli alti ufficiali che non garantivano il requisito fondamentale: la fedeltà. Via il capo di stato maggiore, via il comandante della guardia costiera, via molti altri alti ufficiali. Al loro posto, militari che in passato avevano espresso consenso alla politica di Donald Trump, come il nuovo capo di stato maggiore, il generale Dan Caine. Hegseth oggi ha ripetuto che la Guardia Nazionale e l’esercito verranno utilizzati anche in altre città, se ci saranno proteste. Per ora, non sembrano esserci segnali di dissenso da dentro l’apparato militare.