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La mostra “Disco. I’m coming out” a Parigi

L'expo DISCO

Nell’Italia della seconda metà degli anni ‘70, all’epoca dell’uscita di La febbre del sabato sera, da molta parte del movimento giovanile di contestazione di allora, la Disco Music fu presa come un emblema dell’incipiente reflusso, come una musica di disimpegno. La febbre del sabato sera esce esattamente nel ‘77 e non mancò chi contro la Disco Music brandì fieramente il rock, visto invece come una musica più di contenuto, più coerente con gli ideali della sinistra e organizzò, in contrapposizione, delle serate di discoteca a suon di Rolling Stones. Le cose erano un pochettino più complicate. Presentando la mostra Disco I’m coming out, che da venerdì 14 febbraio resterà aperta alla Philharmonie di Parigi fino al 17 agosto, gli organizzatori hanno proprio insistito sulla politicità della Disco Music. Dentro una musica che si presenta come edonista, la Disco Music, al termine di un decennio di lotte sociali e politiche, celebra l’emancipazione dei costumi e la liberazione dei corpi, diffondendo gli ideali degli anni ‘60 come la conquista di diritti civili, l’uguaglianza, la mescolanza delle razze, la liberazione sessuale, la difesa dei diritti delle donne, la visibilità degli omosessuali. Nei movimenti di oggi, a livello internazionale, si parla molto di intersezionalità di diverse istanze. Una intersezione di cui ha ben vedere la Disco Music offriva un precoce esempio. Nell’intenzione degli organizzatori, la mostra vuole rendere giustizia alla folgorante epopea di questa musica che è stata, non soltanto una musica di festa, ma appunto politica che ha portato sulle piste da ballo molte aspirazioni e molte lotte. Chi ha curato la mostra tiene a segnalare che si tratta di un lavoro, la prima mostra di questo livello sulla Disco Music, molto documentato e fondato storicamente. Ma si spinge non solo a ricordare le valenze storiche della Disco Music, ma anche a suggerire che queste valenze hanno un’attualità molto forte in un mondo che deve fare i conti con un Trump che se la prende con le minoranze, che siano etniche o di orientamento sessuale.

La mostra si articola in quattro grandi parti. La prima è dedicata alle origini afroamericane del genere e al fenomeno delle grandi voci della Disco soprattutto femminili, le cosiddette Disco Divas, segnalando che i testi che cantavano erano più ambiziosi e pregnanti di quanto si sia comunemente pensato. La seconda si occupa del contesto sociopolitico militante di femminismo, lotte per i diritti civili dagli afroamericani ai gay, ricorda la rivolta gay di Stonewall. Importante tenere presente proprio questo, mentre Trump cerca di cancellarlo facendo esibire i Village People, gruppo fra l’altro inventato da due produttori francesi, al suo insediamento. La terza parte parla dei luoghi, inizialmente situazioni marginali, poi grandi discoteche che hanno messo in campo innovativi sistemi di suono e luci. La quarta parte, infine, intitolata Celebration, rende omaggio alla globalizzazione della Disco, alla sua continuità fuori dagli Stati Uniti, all’eterno ritorno del genere, i fenomeni POP o elettronici, da Madonna ai Daft Punk. Come in tutte le mostre della Philharmonie e de La Cité de la musique, lo spettro di riferimenti è ricchissimo, dalle foto ai filmati, dalle opere d’arte, Warhol, Keith Haring, Mapplethorpe, agli abiti. Con una colonna sonora, un mix di brani che in particolare ha un occhio di riguardo per le origini afroamericane, che accompagna il visitatore. La mostra ricorda che il termine “discoteca” nasce in Francia e anche la discoteca come luogo negli anni ‘50 proprio a Parigi, nonché il grande contributo francese alla Disco ma senza sciovinismo. L’esposizione ricorda anche che in Europa sono state ditte italiane a inventare sistemi di luminazione e proiezione multicolore e rotante delle discoteche; e propone persino alcuni pezzi di arredo, elementi architettonici diffusi nelle discoteche italiane e concepiti da una ditta di Torino attiva dagli anni ’60, ispirandosi alle idee del Design radicale italiano.

  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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    Violenza stradale, numeri un po' in calo. Il rimedio: l’educazione e diminuire la velocità

    L’Istat ha pubblicato i report sugli scontri stradali, su base regionale (relativi al 2024) e anche alcuni dati sui primi sei mesi di quest’anno. Ci sono meno feriti e meno vittime sulle strade, anche se i numeri restano ancora drammaticamente elevati. Secondo l’Istituto di Statistica nel primo semestre del 2025 i morti sono stati 1310 (si parla di morti per scontri stradali se il decesso avviene entro 30 giorni dall’evento, quindi sono escluse le persone che muoiono, nonostante la causa siano le conseguenze dello scontro, oltre quel limite temporale) contro i 1406 dello stesso periodo dell’anno precedente. I feriti sono stati 111090, anche in questo caso in calo rispetto al 2024, quando erano stati 112428. Gli obiettivi europei sulla sicurezza stradale prevedono il dimezzamento del numero di vittime e feriti gravi entro il 2030 rispetto all’anno di riferimento, che è il 2019. In Italia al momento registriamo una diminuzione del 4,5% (in Lombardia del 12,6). Bisogna ancora fare molto per riuscire a raggiungere l’obiettivo. Uno degli aspetti fondamentali, oltre la diminuzione della velocità, è l’incremento dell’educazione stradale. Stefano Guarnieri, padre di Lorenzo, morto nel 2010 a causa di un omicidio stradale a Firenze ha fondato l’associazione Lorenzo Guarnieri, che da anni si impegna a portare avanti un discorso di educazione. Alessandro Braga lo ha intervistato nella trasmissione Tutto Scorre.

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    Nubi sull'università italiana: si moltiplicano le adesioni alle università private telematiche, mentre alle statali il governo Meloni taglia i fondi. Ospite l'economista Gianfranco Viesti. E poi, il caso Raiplay Sound, la censura nei confronti di un podcast – prima autorizzato e poi annullato - sulla storia di Margherita Cagol, una delle fondatrici delle Brigate rosse. A Pubblica Nicola Attadio, uno degli autori insieme al giornalista Paolo Morando e al musicista Matteo Portelli.

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