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La guerra che nessuno vuole

Il governo Renzi assicura che ci sarà un intervento italiano in Libia solo se sollecitato dai libici stessi, ovvero dal nuovo governo di unità nazionale che l’Onu sta cercando far nascere. Ma Stati Uniti e Francia – con la scusa che l’Isis sta prendendo terreno – premono per agire subito. Riuscirà l’Italia a mantenere la sua posizione, che fra l’altro e in linea con quanto chiesto dall’Onu? Lo vedremo nei prossimi giorni.

Di fatto, gli italiani sono nettamente contrari a un intervento in Libia. Lo dicono alcuni sondaggi recenti. Uno realizzato  da Ixé per Rai3 mostra un 81 per cento di contrari alla guerra contro un 14 per cento di favorevoli. Un secondo sondaggio realizzato da Demopolis per La7 totalizza una percentuale inferiore di no, che però resta maggioritaria.

Se andiamo a chiedere le ragioni di questo no, il 67 per cento degli intervistati risponde che sarebbe una guerra “inutile e controproducente”, che l’Italia non può permettersi i costi di un intervento (46 per cento) e che crescerebbe il rischio attentati (40 per cento).

Per quanto riguarda i libici, non esistono sondaggi. Noi però abbiamo voluto interpellare al telefono due cittadini di Tripoli, visto che è raro udire voci che vengono da quel paese. Ovviamente senza alcuna pretesa di rappresentatività.

“Non bisogna dimenticare la storia che lega l’Italia e la Libia, ovvero l’invasione coloniale italiana avvenuta all’inzio del ‘900” ci spiega in inglese Alaa, un ex manager. “Se i militari italiani venissero solo per addestrare le truppe libiche, non ci sarebbe problema. Ma se le truppe italiane venissero per combattere… non sarebbero benvenute in Libia. Qui ci sono tante forze in conflitto: il governo, l’Isis, alcune milizie… Se si aggiungessero anche gli italiani, sarebbe un disastro”.

E le forze speciali francesi e statunitensi che sono già sul terreno? “I francesi – per quanto ne so – si trovano nell’Est della Libia, non qui ad Ovest, da noi. Qui non sarebbero affatto benvenuti: li tratteremmo come forze che vogliono restaurare il vecchio regime. Riguardo agli americani, bombardano l’Isis, ma dal mare. Non hanno truppe sul terreno e – per il momento – non vogliono inviarle. Hanno sicuramente un loro servizio di intelligence in Libia, ma è per identificare le postazioni da bombardare”.

Alaa pensa che i libici non siano in grado di sconfiggere da soli lo Stato Islamico. “Primo, non abbiamo le armi adatte per combattere l’Isis. I jihadisti usano armi ad alta tecnologia: vorrei sapere chi gliele ha date. Secondo, l’Isis è fatto di guerriglieri di molte nazionalità diverse, ben addestrati. Dunque se i militari italiani venissero per addestrare i soldati libici e per mettere a punto una strategia efficace per combattere l’Isis, per difendere le nostre città, andrebbe bene. E’ sicuro che i libici da soli non possono farcela”.

Dell’Isis, Alaa pensa tutto il male possibile. “La maggior parte dei libici ha paura dell’Isis perché quelli sono miliziani che uccidono senza alcuno scrupolo, anche i civili. E non rappresentano affatto la nostra religione. L’islam è una religione di pace, non una religione di guerra”. Poi descrive la situazione a Tripoli. “Per il momento è stabile, ma la città di Sabratha alcuni giorni fa è stata attaccata dall’Isis. Tanti abitanti di Sabratha si sono rifugiati qui a Tripoli e sono sotto shock, hanno molta paura. Sabratha è vicina, è solo a 45 km a ovest di Tripoli: ecco perché siamo inquieti”.

 

Karim (altro nome di fantasia) ci risponde invece in italiano. Lavorava nel settore turistico, quando ancora ne esisteva uno. “Gli abitanti di Tripoli sono divisi. La maggior parte non vuole nessun intervento militare straniero: né italiano, né americano, né britannico. Altri invece sarebbero d’accordo, perché nelle città controllate dall’Isis – come Sirte o Sabratha – la situazione è terribile. Gli abitanti soffrono. Secondo me, in caso di intervento straniero, la soluzione migliore è che avvenga sotto l’ombrello delle Nazioni Unite. Per i libici sarebbe più accettabile”.

 

 

  • Autore articolo
    Michela Sechi
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    Violenza stradale, numeri un po' in calo. Il rimedio: l’educazione e diminuire la velocità

    L’Istat ha pubblicato i report sugli scontri stradali, su base regionale (relativi al 2024) e anche alcuni dati sui primi sei mesi di quest’anno. Ci sono meno feriti e meno vittime sulle strade, anche se i numeri restano ancora drammaticamente elevati. Secondo l’Istituto di Statistica nel primo semestre del 2025 i morti sono stati 1310 (si parla di morti per scontri stradali se il decesso avviene entro 30 giorni dall’evento, quindi sono escluse le persone che muoiono, nonostante la causa siano le conseguenze dello scontro, oltre quel limite temporale) contro i 1406 dello stesso periodo dell’anno precedente. I feriti sono stati 111090, anche in questo caso in calo rispetto al 2024, quando erano stati 112428. Gli obiettivi europei sulla sicurezza stradale prevedono il dimezzamento del numero di vittime e feriti gravi entro il 2030 rispetto all’anno di riferimento, che è il 2019. In Italia al momento registriamo una diminuzione del 4,5% (in Lombardia del 12,6). Bisogna ancora fare molto per riuscire a raggiungere l’obiettivo. Uno degli aspetti fondamentali, oltre la diminuzione della velocità, è l’incremento dell’educazione stradale. Stefano Guarnieri, padre di Lorenzo, morto nel 2010 a causa di un omicidio stradale a Firenze ha fondato l’associazione Lorenzo Guarnieri, che da anni si impegna a portare avanti un discorso di educazione. Alessandro Braga lo ha intervistato nella trasmissione Tutto Scorre.

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