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Minoranze etniche, il futuro per la democrazia

Nel 2016, molto probabilmente, Myanmar avrà il suo primo governo civile dopo un lungo periodo di potere in mano ai militari. Nei prossimi mesi ci sarà infatti il passaggio di consegne dall’attuale esecutivo, ancora emanazione dell’esercito, a un governo guidato dalla Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, uscita vincente dalle elezioni dello scorso autunno.

Proprio in queste settimane è in corso un negoziato tra le parti per garantire una transizione senza scossoni. Ma perché il processo di democratizzazione abbia successo è necessario che si concluda bene anche un’altra trattativa, quella tra lo stato centrale e le diverse minoranze etniche del paese. Anzi, i due negoziati sono strettamente legati tra loro, potremmo dire che sono complementari.

A facilitare il dialogo tra lo stato e i gruppi etnici c’è una delegazione del Programma Svizzero per la Promozione della Pace e dei Diritti Umani, un progetto che dipende dal Ministero degli Affari Esteri della Confederazione Svizzera. Il suo responsabile in Myanmar è Damiano Sguaitamatti. Gli abbiamo chiesto di condividere con noi la sua esperienza in un momento così delicato per il futuro di un paese che fino a poco tempo fa era uno dei più impenetrabili al mondo.

Qual è il vostro ruolo in Myanmar?

Noi tendiamo a non usare la parola mediazione, perché in un contesto asiatico le parti coinvolte nel conflitto vogliono essere loro i principali attori della transizione e non vogliono dare l’idea di un intervento esterno. Noi quindi diamo un sostegno ai negoziati, e come da tradizione svizzera lo facciamo con poca visibilità. In sostanza aiutiamo le parti a prepararsi al negoziato, finora un negoziato per un cessate il fuoco a livello nazionale.

State quindi facilitando il dialogo…

Aiutiamo le parti a comunicare. Come in molti altri conflitti i canali di comunicazione esistono. Non è che la parti non parlino tra loro. Il problema è la comprensione. Quindi bisogna preparare il dialogo, preparare gli incontri, in modo che si possano ottenere dei risultati. Per esempio quando si negozia un cessate il fuoco bisogna tenere in considerazione molti aspetti tecnici, ecco per esempio le parti hanno bisogno di esperti tecnici che li assistano anche da questo punto di vista.

Quando si parla di Myanmar si pensa subito a un governo emanazione del potere militare e a un’opposizione guidata dalla Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi. Ma in realtà gli attori del processo di transizione sono molti di più, giusto?

Il negoziato che noi stiamo seguendo non coinvolge la Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, ma lo stato centrale e i diversi gruppi etnici, più di una dozzina, che abitano alla periferia del paese. Il governo sta provando a siglare con queste comunità e con i loro gruppi armati un contratto sociale nazionale, un progetto che non ha precedenti nella storia recente del paese. C’era stato un dialogo simile solo 60 anni fa. Noi facilitiamo questa trattativa. Poi, come diceva lei, c’è l’altro negoziato, quello per passare da un governo militare e un governo civile, dove la protagonista è ovviamente Aung San Suu Kyi. Sono due processi molto importanti, ma difficili da coordinare.

Quali sono le principali difficoltà di questa trattativa con le minoranze etniche?

Una difficoltà in realtà è comune a tutti i negoziati di questo tipo, ed è la necessità di coordinamento tra i vari attori internazionali coinvolti. Come in altri conflitti sono presenti più agenzie, governative e non governative, che tentano di aiutare le parti a dialogare. Allora bisogna fare in modo che questi attori internazionali agiscano secondo un piano condiviso e coordinato.

Un’altra difficoltà, invece, è legata al lavoro in questo paese specifio: tenere insieme il processo politico di democratizzazione, di cui è protagonista Aung San Suu Kyi, e il negoziato con le minoranze etniche. È una difficoltà degli ultimi mesi. Aung San Suu Kyi ha vinto le elezioni e dominerà il nuovo parlamento, per questo dobbiamo fare in modo che anche lei continui questo negoziato con i gruppi etnici. Sarebbe un peccato che venisse abbandonata questa politica di riconciliazione.

Nel senso che ci sono rischi che questo negoziato venga interrotto?

Noi tendiamo a essere ottimisti, ma ovviamente ci sono dei rischi. Come in tutti i processi democratici il percorso è fragile, e c’è sempre il rischio di tornare indietro. Nulla è irreversibile. Anche qui c’è sempre il rischio che a un certo punto le forze politiche, tutte quante, non diano più importanza al riavvicinamento con le minoranze del paese.

Nel vostro lavoro è evidente, si sente, il passaggio storico che sta vivendo Myanmar?

È una domanda molto interessante. Non stiamo parlando di qualcosa di nuovo. Questo passaggio è stato orchestrato, diretto, dall’esercito. Non si tratta di una cosa nuova, risale ad alcuni anni fa. I militari sono molto prudenti, fanno un piccolo passo alla volta. Per quanto ci riguarda noi ci siamo accorti che questo paese avrebbe potuto diventare un paese democratico nel 2011-2012. E ormai credo si possa dire che abbiamo davanti a noi un’opportunità che si era presentata solo 60 anni fa, con l’indipendenza del paese. La comunità internazionale dovrebbe supportare questa transizione con tutte le sue forze.

  • Autore articolo
    Emanuele Valenti
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    Sabato 20 e domenica 21 settembre al Paolo Pini di Milano si terrà la prima edizione del Godai Fest, il festival multidisciplinare che unisce la musica alle arti performative e visive nato da un’idea del musicista Rodrigo D’Erasmo, del produttore Daniele Tortora e dell’artista visivo Cristiano Carotti per abbattere i recinti di genere e di partecipazione, connettere le arti, sperimentare nuovi linguaggi, ampliare le visioni. L’arte, in tutte le sue declinazioni, sarà protagonista di un viaggio attraverso i 4 elementi della cultura umana (Fuoco, Terra, Acqua, Aria) ai quali si aggiunge, secondo la filosofia orientale, il principio del Vuoto. Ad ogni elemento corrisponde un curatore: Rodrigo D'Erasmo in questa intervista di Elisa Graci e Dario Grande a Volume ci ha presentato il concetto e il programma di questo festival.

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    Il primo Pride della Valtellina Chiavenna. L'emozione, ha fatto salir la fame! Per merenda: pane burro e acciughe con bollicina,. Poi via si torna a Milano, al Piccolo Salone del Libro Politico al Conchetta. Vuoi segnalare un evento, un’iniziativa o raccontare una storia? Scrivi a vieniconme@radiopopolare.it o chiama in diretta allo 02 33 001 001 Dal lunedi al venerdì, dalle 16.00 alle 17.00 Conduzione, Giulia Strippoli Redazione, Giulia Strippoli e Claudio Agostoni La sigla di Vieni con Me è "Caosmosi" di Addict Ameba

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    In Etiopia inaugurata la diga della discordia

    Il 9 settembre, dopo 14 anni di lavori, l’Etiopia ha inaugurato ufficialmente la Gerd, la Grand Ethiopian Renaissance Dam, il più grande progetto idroelettrico d'Africa, e tra i 20 più grandi al mondo. Da anni la diga è anche causa di tensione con i paesi a valle del Nilo: Sudan e soprattutto Egitto, che temono di vedere ridotte le proprie risorse idriche, anche in considerazione dei sempre più frequenti periodi di siccità. “Questa diga sarà certamente uno degli epicentri di tensione di questa regione nel prossimo futuro” spiega Luca Puddu, docente di storia dell’Africa all'Università di Palermo, al microfono di Sara Milanese. Ascolta l’intervista andata in onda in A come Africa.

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