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Campagna repubblicana anti-Clinton

“You’re fired”.

Lo slogan che Donald Trump usava con una certa frequenza nel suo show televisivo, The apprentice (seguito poi da The Celebrity Apprentice), potrebbe essere tranquillamente usato oggi nei confronti di Hillary Clinton, la candidata democratica che alla Convention di Cleveland è diventata una sorta di punching ball dei repubblicani. Tutti l’attaccano, tutti chiedono che sia licenziata: dalla politica, ovviamente, ma in qualche modo anche dalla società civile.

“In galera” è uno degli slogan più associati al suo nome.

L’esplosione di rabbia non sorprende. Almeno dagli anni della presidenza del marito Bill, Hillary Clinton è una delle figure più odiate dalla destra e dai conservatori americani. Di volta in volta, non è piaciuto il suo attivismo da First Lady – con Bill alla Casa Bianca, Hillary ha lavorato a un progetto di riforma della sanità, poi fallito. Non è piaciuto l’atteggiamento con cui è passata sopra ai tradimenti dell’allora presidente. Non è piaciuto il modo in cui ha navigato tra diversi scandali o presunti tali – Whitewater, Vince Foster, e poi Bengasi, le e-mail da segretario di Stato. Non è piaciuta la disinvoltura con cui ha incassato migliaia di dollari per i suoi discorsi di fronte ai board di grandi aziende e istituzioni finanziarie. Non piace l’ambiguità dei suoi rapporti con Wall Street. Non piacciono i misteri sui finanziamenti alla Clinton Foundation.

A dire il vero, molte di queste cose non piacciono nemmeno a una parte dei democratici; per esempio, a quelli che hanno appoggiato Bernie Sanders durante le primarie. Del resto, una carriera politica che è iniziata a metà anni Sessanta (come sostenitrice di un repubblicano, Barry Goldwater) offre inevitabilmente più di un appiglio. Hillary Clinton è stata descritta, volta per volta, come ambiziosa, indifferente ai principi, infida, poco preparata, insicura, pronta a cambiare idea ogni volta che l’interesse politico lo imponeva. Perché Clinton è passata sopra ai tradimenti del marito? Per ambizione, per non vedersi stroncata la carriera politica. Che cosa rivela la storia di Bengasi e degli americani dell’ambasciata uccisi? La sua incapacità a governare la politica estera e assicurare la sicurezza degli americani. Per quale ragione ha usato, da segretario di stato, un account personale e non quello del Dipartimento? Perché aveva qualcosa di nascondere.

Pochi personaggi, nella recente storia politica americana, hanno scatenato così tante controversie. E’ un rancore che ha sicuramente a che fare con il fastidio di una parte d’America per una donna che ha sempre rivendicato la propria fede femminista; che non si è limitata a fare la First Lady, un passo indietro, ma ha chiesto un ruolo visibile e centrale. In questo, Hillary Clinton non è stata seguita davvero da nessuna; nemmeno da Michelle Obama, che da First Lady non ha voluto occuparsi di questioni legate alla politica, ma ha preferito mettere mano ad alimentazione e infanzia. Il risultato è che Michelle lascia la Casa Bianca come una delle First Lady più amate della storia.

Qui alla Convention di Cleveland il furore anti-clintoniano ha raggiunto però l’apice. “E’ una bugiarda, non merita di diventare presidente degli Stati Uniti”, mi dice un delegato della Florida, . “Le manca solo un omicidio e poi le ha fatte tutte. Anzi, non sarei così sicura che non abbia anche eliminato qualcuno”, è l’opinione di una militante del Nevada che va in giro tappezzata di bigliettini con scritto “I media liberal ti mentono”. Per un’altra delegata, Cindy Walker, una sostenitrice di Ted Cruz “siete voi giornalisti che l’avete difesa e nascosto le sue malefatte. Ma la gente sa la verità e non permetterà che una come Clinton diventi presidente”.

Se questo è il clima generale, non sorprende che l’intervento sinora più applaudito della Convention sia stato quello di Chris Christie, il governatore del New Jersey, ex procuratore, che è salito sul podio e di fronte alla folla esultante ha ricordato tutte le ragioni per cui Clinton è colpevole: “Ha fallito in Libia… Ha messo le basi per l’esplosione dell’ISIS… Ha appoggiato I peggiori tiranni del Medio Oriente… E’ stata una negoziatrice inetta nei trattati sul disarmo… Ha permesso alla Russia di tornare a essere un attore importante sulla scena internazionale… Ha appoggiato le politiche brutali dei fratelli Castro… Ha messo a rischio la sicurezza nazionale con l’uso di un account mail privato”. A ogni capo d’accusa, la folla rispondeva Guilty, colpevole, con slogan che inneggiavano al carcere e a “nessuna pietà” per l’ex segretaria di stato.

Si è trattato di uno spettacolo impressionante, rivelatore di un rancore che non ha probabilmente uguale nemmeno nell’insofferenza di alcuni settori dell’America bianca per Barack Obama. E’ stato impressionante perché venuto da un uomo di legge che in quest’occasione, più che un ex procuratore, è sembrato un inquisitore pronto a chiedere il rogo sulla base di indizi e voci (difficile credere, come ha sostenuto Christie, che Clinton sia “un’apologeta di Al Qaeda in Nigeria”). E’ stato impressionante per l’eccitazione urlata con cui la folla ha chiesto, sostanzialmente, la galera per un’avversaria politica. E’ stato impressionante perché anticipa il clima di una campagna elettorale che sarà dura, senza esclusione di colpi. Ed è stato, infine, impressionante, perché ha ricordato che anche in politica, alle donne, si perdona molto meno.

  • Autore articolo
    Roberto Festa
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    Questa settimana Elijah Wald è in Italia per portare sul palco, tra Milano, Torino e Piacenza, le sue storie su Bob Dylan e il Greenwich Village di New York. Chitarrista folk blues ma anche narratore e giornalista musicale, attraverso canzoni e racconti Wald ripercorre nel suo spettacolo il cammino di Dylan e dei tanti personaggi di quel periodo irripetibile. Da Woody Guthrie a Pete Seeger, da Eric Von Schmidt a Dave Van Ronk - quest’ultimo anche protagonista del film dei fratelli Coen “A proposito di Davis” e realizzato partendo proprio dal memoir scritto da Wald. Oggi Elijah è venuto a trovarci a Radio Popolare per raccontarci la sua storia e suonarci alcuni brani tra Mississippi John Hurt, Paul Clayton e Victor Jara. Ascolta l’intervista e il MiniLive di Elijah Wald.

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    Una mostra fotografica ripercorre i 50 anni di Radio Popolare. Dal 14 dicembre a Milano

    Domenica 14 dicembre alle ore 10, presso la Sala Cisterne della Fabbrica del Vapore, a Milano, inaugura la mostra "50 e 50. La mostra. Radio Popolare 1975 - 2025", una delle prime iniziative organizzate per celebrare il 50esimo anniversario dalla fondazione di Radio Popolare. La mostra racconta i cinque decenni "di onda" attraverso venti storie realizzate dai fotografi che in questi anni sono stati vicini alla radio. Inoltre, la mostra ospiterà un’interpretazione creativa realizzata da Studio Azzurro dei video che ricostruiscono la storia di Radio Popolare. La mostra sarà allestita fino al 25 gennaio. Tiziana Ricci ce la racconta insieme a Giovanna Calvenzi, che ne è la curatrice.

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