
Lo stato del regime iraniano dopo dodici giorni di guerra con Israele e Stati Uniti è una questione cruciale, che segnerà il futuro non solo di questo paese ma di tutta la regione. Lo scontro aperto con i suoi nemici storici ha messo in forte difficoltà la Repubblica Islamica e i suoi vertici. L’uccisione di diversi comandanti militari ha poi portato a un’inevitabile riorganizzazione della struttura di comando. Gli effetti non li conosciamo ancora, ma di sicuro, come già nei giorni scorsi a conflitto in corso, alcune decisioni vengono e verranno prese da figure nuove.
Uno cambiamento ipotizzato da diversi analisti è quello di uno spostamento degli equilibri interni dai religiosi ai militari, da un settore più ideologico a uno più pragmatico, composto soprattutto dai famosi Guardiani della Rivoluzione. Forse è anche il pragmatismo che ha portato Tehran ad accettare il cessate il fuoco cominciato ieri. Ma non necessariamente pragmatismo vuol dire un approccio più moribido e conciliante con l’esterno, nello specifico con i nemici storici. Oltretutto per una serie di motivi i bombardamenti israeliani e americani non hanno portato, come auspicavano alcuni in Occidente, a una rivolta di popolo. Impossibile dire quanto sia rimasto compatto il sistema di potere. Le divisioni c’erano prima e ci saranno anche adesso, ma anche sul fronte interno, almeno per ora, il regime ha tenuto. Nonostante una vasta porzione della società iraniana vorrebbe che ci fosse un grosso cambiamento.
Un obiettivo il regime lo ha quindi ottenuto. Sopravvivere. Non era scontato. Ovviamente in una situazione in chiaro scuro.
Diversi cittadini iraniani, in questi giorni, ci hanno raccontato di sentirsi persi, di non sapere cosa fare e dove andare. Erano senza una guida. In un paese a cui vertici c’è una figura definita guida suprema è piuttosto rappresentativo.
Per decenni Tehran ha combattuto una guerra sotterranea con gli Stati Uniti e con Israele, a un certo punto anche con il problema dell’embargo e delle sanzioni. Da un certo punto di vista sono decenni che Tehran resiste. Non è un caso che la rete delle sue alleanze regionali in Medio Oriente, oggi fortemente indebolita, si chiamasse Asse della Resistenza. La vittoria è resistere. E da questo punto di vista, come dice la propaganda, anche l’Iran ha vinto. Determinante qui probabilmente anche la posizione dei paesi arabi del Golfo, gli ex-nemici sunniti che vedevano un eventuale caduta del regime con un uragano con conseguenze disasatrose per tutta la regione. Seppur in un momento di estrema difficoltà questo è un supporto non da poco per Tehran.
Ma il tutto succede in un quadro ancora molto fluido. Un contatto dentro il sistema ci ha detto che è difficilissimo capire cosa stia succedendo.
I cittadini iraniani rimangono tra due fuochi, come nei giorni scorsi. Molti sono critici con i loro governanti. Non si fidavano prima e non si fidano adesso. Ma allo stesso tempo non si fidano nemmeno dei nemici esterni, degli israeliani che li hanno bombardati e degli americani che hanno autorizzato la campagna israeliana nel mezzo di un negoziato, quello sul nucleare.
E proprio da quello che i vertici iraniani decideranno di fare sul programma nucleare dipenderanno una serie di questioni che abbiamo citato finora.
Nonostante i proclami di Trump non è certo che il programma nucleare sia stato messo fuori uso, per esempio per il possibile trasferimento dell’uranio arricchito in luoghi fuori dalle centrali tradizionali. Il parlamento di Tehran ha sospesto la collaborazione con l’AIEA. Il presidente americano ha detto che ci sarà un nuovo incontro la prossima settimana. Vediamo.