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Intervista all’avvocato di Abu Zubaydah, “il prigioniero eterno” di Guantanamo

“Non c’è alcun dubbio sul fatto che sia stata tortura. Può essere chiamata come si vuole, ma se vedessi queste cose fatte ad un cane, inorridiresti, diresti: “Perché state torturando quest’animale?”. E’ ovvio che sia stata tortura. E ha lasciato cicatrici. Non puoi subire queste cose senza avere delle cicatrice, cicatrici durature. E quelle fisiche sono le meno gravi”.

Joseph Marguiles. è un avvocato statunitense. Per anni ha difeso uomini e donne condannati a morte, o all’ergastolo. Uomini e donne che agli occhi di tutti erano solo mostri, autori di crimini orribili. Dopo l’attentato alle torri gemelle, ha iniziato a rappresentato le persone coinvolte negli eccessi della cosiddetta “guerra al terrorismo”. Da circa 15 anni, è l’avvocato di Abu Zubaydah, noto anche come “The forever Prisoner”, il prigioniero eterno.

E’ di lui che parla quando parla di tortura. Perché non c’è nessun altra parola che viene in mente quando si ascolta la storia di Abu Zubaydah.

“Abu Zubaydah è un palestinese nato in Arabia Saudita. La sua educazione è stata laica, non particolarmente religiosa. Come tanti giovani ragazzi musulmani, quando l’Unione Sovietica invase l’Afghanistan, e quindi la comunità musulmana venne messa sotto attacco, Zubaydah percepì il momento come un’ingiustizia e si unì ai mujahideen”.

In Afghanistan Abu Zubaydah si formò e si addestrò e qui venne ferito. Una ferita alla testa che gli impedì – da quel momento in poi – di combattere. Il suo ruolo quindi divenne meno operativo e più organizzativo, organizzando i viaggi di giovani musulmani che volevano addestrarsi per la jihad.
A questo punto, per comprendere la sua storia, è importante capire il modo in cui Zubaydah intende la iihad, così come ce lo ha raccontato il suo avvocato.

“Il suo concetto di jihad era difensivo. Mentre quello di Osama Bin Laden era offensivo. Bin Laden credeva che la jihad andasse combattuta contro i nemici lontani: gli Stati Uniti. Ma molti degli studiosi del corano pensano che questo sia sbagliato e che la jihad debba restare dentro i propri confini. Questo è il motivo per cui per molti interpreti del corano l’11 settembre è stato vergognoso e Abu Zubaydah era in questa categoria”.

Una differenza che per gli Stati Uniti, dopo l’attacco alle Torri Gemelle non esisteva. E quindi chiunque fosse in qualche modo coinvolto con la jihad, tutti i mujiahideen ad esempio, divennero sospetti. Così accadde per Abu Zubaydah che venne arrestato nel 2002, mentre si trovava in Pakistan. Per il suo ruolo nell’organizzazione dei viaggi verso un campo di addestramento in Afghanistan, la Cia pensò che fosse un pezzo grosso di Al Qaeda, un pezzo molto grosso. Ma con Al Qaeda non aveva niente a che fare.

“E’ stato per i suoi interrogatori, che vennero creati i black sites, le prigioni segrete della Cia. Abu Zubaydah fu il primo, fu colui per il quale venne creato il ‘torture memo’ ovvero un documento con cui un avvocato diede il via libera legale alla Cia per utilizzare metodi di interrogatorio molto aggressivi”.

Per questo Abu Zubaydah è conosciuto anche come ‘la cavia della Cia’. venne portato prima in un black sites poco fuori Bangkok, in Thailandia, poi in Polonia, e poi in altri luoghi la cui ubicazione non è ancora stata de-secretata dal governo americano. Continuò a essere spostato di qua e di là in questi luoghi segreti fino al 2006, quando venne trasferito a Guantanamo e qui è stato da allora, e qui è ancora oggi e probabilmente, secondo lo stesso avvocato Joseph Marguiles, qui rimarrà fino alla fine dei suoi giorni.

“L’hanno torturato perché pensavano fosse un capo di Al Qaeda. Cosa che si è poi scoperto non era. Ovviamente mentre lo torturavano ripeteva ‘non sono questa persona’ e loro pensavano che non lo stavano torturando abbastanza. Alla fine, dopo torture come waterboarding, privazione del sonno e stupro, hanno capito che da lui non avrebbero più avuto nessuna informazione”.

Le torture subite da Zubaydah sono tremende. Difficili da descrivere a parole. Il Guardian ha pubblicato in esclusiva i disegni che lo stesso Zubaydah ha fatto negli anni, che descrivono graficamente – con l’aiuto di alcune note scritte dallo stesso – cosa gli è stato fatto. Cosa il governo americano gli ha fatto. Un documento che, forse, avrà un ruolo importante per la battaglia legale che i suoi avvocati portano avanti da quasi 20 anni considerando che fino ad ora, il governo americano si è sempre rifiutato anche solo di riconoscere che quello che è stato fatto a Guantanamo e nei black sites della Cia, fosse tortura. Oggi Zubaydah ha 52 anni.  “Come sta?” Chiedo al suo avvocato.

“Non sono autorizzato a parlarne. Ma qualche cosa è stata de-secretata. Sono autorizzato a dirti che sono molto preoccupato per la sua salute, sono autorizzato a utilizzare queste parole.
Sono autorizzato a dirti che soffre gli effetti della tortura. Ha problemi serissimi di memoria, sia a lungo che a breve termine. Ha avuto continue perdite di coscienza, attacchi epilettici ripetuti… e questo è il limite di quello che posso dire”.

La cosa più assurda di questa storia, oltre ovviamente alla violenza e la brutalità di un sistema come quello di Guantanamo, è che Abu Zubaydah – il prigioniero eterno – non è mai stato accusato di niente, e non verrà mai accusato di niente. E’ innocente e gli Stati Uniti lo sanno, ma non può essere rilasciato perché non trovano un luogo dove rimpatriarlo. Di Guantanamo si parla sempre meno, ma persone come Abu Zubaydah e circa altre 30 persone sono ancora lì con tutte le loro cicatrici, e la cosa peggiore che può essere fatta loro a questo punto è che vengano dimenticati.

Foto | Una manifestazione degli attivisti del gruppo CODEPINK per chiedere la chiusura di Guantanamo, Washington, maggio 2013

  • Autore articolo
    Martina Stefanoni
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    E’ da poco uscito “In Fatti Ostili”, nuovo album della storica formazione milanese Delta V. Durante il tour promozionale del disco, Martina e Carlo sono passati a Volume per raccontarcelo e suonarci alcuni pezzi dal vivo. A legare le nuove tracce, raccontano, “è stato il senso di spaesamento” ma anche “la sensazione di vivere in un mondo sempre più ostile e rivolto unicamente a se stesso”. Nella forma di un elegante cantautorato elettronico, l’album offre una lucida fotografia della società di oggi, in cui concetti di fiducia, altruismo e speranza paiono sempre più lontani. La metafora che la band utilizza per affrontare questi temi è spesso quella della città da cui proviene: “Milano ricorda molto Dorian Grey, si specchia e si vede sempre bella e giovane ma manca sempre più di sostanza”. Ascolta l’intervista e il MiniLive dei Delta V, a cura di Dario Grande.

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