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Il regno del terrore contro gli intellettuali

Il 2016 in Arabia Saudita è iniziato con le atrocità dell’assassinio di Stato: in un solo giorno 47 esecuzioni capitali contro condannati per terrorismo qaedista e contro altri condannati per reati di opinione, come l’imam sciita Al-Nimr. Quest’ultimo caso ha suscitato una reazione popolare in Iran, con l’incendio delle sedi diplomatiche saudite a Teheran e a Mashad, che ha portato alla rottura delle relazioni tra i due Paesi. Il conteggio delle esecuzioni, in Arabia Saudita, nelle prime due settimane dell’anno è arrivato a 51.

In questi giorni, poi, un altro passo delle autorità giudiziarie di Riad sta mettendo in chiaro il livello di delirio della macchina repressiva dei Bani Saud. Nel regno dove i poeti rischiano la pena di morte, è stata arrestata a Gedda – e rilasciata su cauzione dopo 24 ore – Samar Badawi (nella foto con la figlia), sorella del blogger premio Sacharov, Raef, condannato a dieci anni di reclusione e a mille frustate da uno Stato oscurantista che non rispetta la libertà d’espressione. Samar sarà interrogata oggi nel carcere di Dhahran, lo stesso dove è detenuto suo marito Waleed Abdulkhair, anche lui per reati di opinione. L’accusa rivolta dalla polizia a Samar è quella di aver utilizzato gli account del coniuge sui social network, “per istigare contro l’autorità dello Stato”.

Queste persone, colte e preparate, non sono terroristi armati, né fanno parte di movimenti organizzati e di grande consenso di massa. Sono intellettuali che esprimono opinioni liberali e che non contestano la monarchia, ma rivendicano libertà d’espressione (mettendo in discussione, quindi, anche il ruolo dei religiosi nella vita pubblica dei cittadini) e si battono con la parola per il diritto a organizzarsi; rivendicazioni che rappresentano un livello minimo per garantire la dignità umana. È incredibile la paura forsennata che la famiglia regnante saudita ha messo in campo, contro un gruppo limitato di persone, una macchina repressiva senza precedenti e un collaudato sistema giudiziario affiliato al potere.

Il primo a essere messo sotto accusa è stato Raef Badawi. La sua “colpa” è stata quella di fondare su internet il Free Saudi Liberals, un forum libero e aperto per discutere del ruolo della religione in Arabia Saudita. Per le sue opinioni, Raef ha subìto un lungo processo per apostasia, durato dal 2012 al 2014 e la chiusura del blog. Dopo una prima condanna a sei anni e seicento frustate, in appello la pena è salita a “dieci anni di carcere, un milione di rial e mille frustate, da somministrare in sessioni da cinquanta l’una e per un periodo di riposo non minore di una settimana tra l’una e l’altra”, come recita la sentenza definitiva. Un anno fa, il 9 gennaio 2015, la prima razione di frustate in pubblico, bloccate dopo le proteste internazionali e gli interventi di molti capi di Stato, compreso il presidente statunitense Obama. In realtà la pena è stata soltanto sospesa, “per motivi di salute del prigioniero”, hanno spiegato le autorità giudiziarie saudite; quindi il rischio che si ripeta quella vergognosa e medievale pratica è altissimo.

La moglie di Raef, Ensaf Haidar, per salvarsi, dopo un viaggio in Libano, è dovuta fuggire con i propri tre figli in Canada, dove ha chiesto asilo. Badawi, nel 2015 a 32 anni è stato insignito del premio Sacharov dell’Unione europea, ma a Bruxelles a ritirarlo non ci è mai potuto andare. In ogni caso l’assegnazione di questo premio non salva l’anima della Ue e dei Paesi membri che continuano a tessere affari con Riad e a esportare armi alla potente monarchia petrolifera, senza mai alzare la voce pubblicamente per protestare contro queste sentenze anacronistiche.

Nel viaggio del presidente del Consiglio Renzi a Riad, lo scorso novembre, il tema dei diritti umani non è mai uscito in pubblico, nonostante il quotidiano vicino al Pd, L’Unità, fondato da Antonio Gramsci e voluto dallo stesso segretario del partito, abbia intrapreso pochi mesi prima una meritoria campagna per la liberazione di un minorenne, Alì Al-Nimr, nipote dell’imam sciita, condannato a morte per aver partecipato a una manifestazione.

Waleed Abdulkhair, genero nonché avvocato di Raef, è stato condannato a 15 anni di prigione per alcuni post in difesa dei diritti umani nel regno. Tra le forme di accanimento nei confronti suo e di sua moglie Samar, vi è stato il processo per abbandono di minori lo scorso settembre, quando lui era già in carcere e lei è partita per Ginevra, dove ha denunciato le leggi liberticide nel suo Paese. Dal momento del suo ritorno, le è stato ritirato il passaporto e impedito di lasciare il regno. Infine, l’arresto di questi giorni e le accuse per “istigazione contro lo Stato”.

La potenza economica condizionante della monarchia saudita tocca anche i media dei Paesi arabi. Questo accanimento della famiglia reale dei Bani Saud contro la libertà d’espressione non trova spazio sui media arabi, neanche sulle pagine di quelli autorevoli e indipendenti. Nessun giornale né emittente tv ha dato tempestivamente la notizia dell’arresto di Samar Badawi. A sollecitare la solidarietà con la sua causa c’è soltanto la società civile, i mediattivisti e nei social network, oltre alle organizzazioni per i diritti umani, sia locali (ove esistano) sia internazionali (come Amnesty International e Human Rights Watch).

L’Arabia Saudita è oggetto di protesta internazionale anche per il caso del poeta palestinese Ashraf Fayyad, condannato a morte con l’accusa di apostasia per una raccolta di poesie pubblicata a Beirut. Oggi in molte città del mondo saranno lette le sue opere e sarà pubblicato un libro che raccoglie cento poesie dedicate al suo caso. Più di 121 eventi in 43 nazioni, organizzati da associazioni locali. Tra le città interessate Il Cairo, Beirut, Tunisi, Roma, Milano, Berlino, Londra, Parigi, New York e molte altre. A Milano, l’iniziativa sarà ospitata dalla Libreria Les Mots, via Carmagnola angolo via Pepe, (zona Isola, dietro la stazione di Garibaldi), alle ore 18.30.

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    Farid Adly
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    Lista stupri. Una delle ragazze minacciate: “L’educazione sessuo-affettiva serve ad arginare le violenze”

    L’educazione sessuale a scuola si farà solo con il consenso dei genitori degli studenti minorenni, sia alle medie sia alle superiori. Alla Camera ieri è arrivato il via libera agli emendamenti al ddl Valditara tra le proteste delle opposizioni. È stato respinto anche un emendamento che prevedeva di togliere il consenso dei genitori in caso il corso fosse organizzato dalle Asl, quindi non da associazioni ma dal servizio sanitario nazionale. Intanto, prosegue l’indagine della procura di Roma "lista degli stupri” comparsa nei giorni scorsi nei bagni del liceo romano Giulio Cesare. Al momento il reato ipotizzato è istigazione a delinquere finalizzata alla violenza sessuale. Andrea, una delle studentesse del Giulio Cesare il cui nome era presente nella lista, al microfono di Mattia Guastafierro, ci racconta qual è il clima a scuola: “Ci sono stati dei precedenti, sicuramente non così gravi: stati bruciati dei cartelloni contro la violenza sulle donne nel bagno dei maschi, sono state strappate delle petizioni messe in bacheca per sensibilizzare alla violenza di genere. Purtroppo ci sono persone che hanno avuto un'educazione familiare estremamente poco consapevole di certe cose e purtroppo questa è la prova che un argomento così terribile come lo stupro possa essere utilizzato con leggerezza e, anzi, scritto su un muro di un bagno”. Inoltre, Andrea riconosce l'importanza dell'educazione sesso-affettiva nelle scuole: "Noi passiamo tantissime ore all'interno delle mura scolastiche e quindi deve essere la scuola a insegnare ed arrivare dove la famiglia magari non riesce. C'è molta disinformazione su quello di cui si tratta nell’educazione sessuo-affettiva: serve per insegnare il consenso, per conoscere se stessi senza paure, senza timori e stigmi sociali, per accettare ogni parte di sé. Facendo questo percorso dentro la scuola inevitabilmente la violenza di genere, e le violenze in generale, vengono arginate proprio perché la violenza parte da un'insicurezza. Se noi insegniamo che va bene averle, che queste si possono gestire, come gestire le relazioni, i conflitti ed educare al consenso, io credo che queste cose non succederebbero più. La scuola se ne deve far carico".

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