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Il rattoppo segreto per Padiglione Italia

Se esistesse un premio “figuracce di Expo” andrebbe dritto dritto alla Via d’Acqua, l’opera dal nome più bello ed evocativo e che più di ogni altra ha messo in imbarazzo il grande evento. Tra revisione del progetto, proteste dei cittadini, tangenti, commissariamento, il canale che avrebbe dovuto trasformare Milano in una novella Venezia ha segnato uno dei momenti più bassi dell’Esposizione.

Oggi scopriamo l’ultimo tassello: i 30 milioni di euro risparmiati dal mancato completamento dell’opera non sono andati alla messa in sicurezza del fiume Seveso come chiesto dal sindaco Pisapia, ma sono stati usati per coprire gli extra costi del Padiglione Italia. Non solo. Ad aprile 2015 il commissario Sala disse che gli extra-costi sarebbero stati coperti da sponsorizzazioni private e che della ricerca di questi fondi se ne sarebbe occupato il commissario del Padiglione Italia Diana Bracco. Nulla di tutto ciò è avvenuto, e nel silenzio generale i soldi promessi per la sistemazione del Seveso sono finiti a rattoppare il padiglione che ha rappresentato l’Italia a Expo.

A sollevare la questione lunedì pomeriggio  in commissione Expo è stato il consigliere dei Radicali Marco Cappato che ha ricordato la vicenda, le proteste dei comitati No Canal e l’inchiesta della magistratura che ha portato al commissariamento dell’azienda vincitrice dei lavori, la Maltauro, e al patteggiamento dell’allora vice commissario di Giuseppe Sala, Antonio Acerbo.

Dopo aver spiegato che i soldi promessi al Seveso erano finiti al Padiglione Italia, Sala ha provato a ributtare la palla in campo: “Se ora con il sindaco vogliamo ridestinarli al Seveso possiamo riprovarci”. Oltre al danno la beffa: recuperare quei 30 milioni ora, significherebbe spostarli da altre voci del bilancio e quindi aprire altri buchi da coprire con ulteriori investimenti pubblici. A meno che qualcuno non faccia quanto promesso ad aprile recuperando i fondi da sponsor privati. Cosa che appare difficile, anche perché ora da Expo Spa è tutto un fuggi fuggi.

Giuseppe Sala, in questo periodo molto impegnato nella campagna elettorale per le primarie del centro sinistra milanese, dal primo febbraio non sarà più amministratore delegato di Expo Spa. E a sorpresa, in serata, si è saputo che anche Diana Bracco ha rassegnato le dimissioni dalla presidenza di Expo Spa e non sarà più commissario del Padiglione Italia. La decisione sarebbe stata comunicata dalla Bracco con una lettera la scorsa settimana, anche se Sala in commissione, rispondendo sempre ad una domanda di Marco Cappato, aveva detto di non sapere nulla delle dimissioni di Diana Bracco dal cda di Expo. Altre dimissioni arrivate in questi giorni, quelle del presidente del collegio sindacale di Expo Massimiliano Nova (non confermate né smentite da Giuseppe Sala, ndr).

La proposta di utilizzare i soldi risparmiati dalla mancata costruzione del tratto sud della Via d’Acqua per la messa in sicurezza del Seveso era stata fatta per la prima volta dai comitati No Canal durante le proteste che tra fine 2013 e durante il 2014 bloccarono i lavori nei parchi interessati dal passaggio del canale. Il 17 novembre ci fu un tweetstorm indirizzato agli account di Expo e del Comune di Milano con la parola chiave #cambiodirotta.

Nelle stesse ore il sindaco Pisapia rilanciava: “Per quanto riguarda le Vie d’Acqua, penso che si debba valutare l’opportunità, eventualmente anche con interventi normativi, che parte dei fondi oggi destinati a questa opera possano essere utilizzati per interventi strutturali necessari a risolvere in via definitiva le criticità idrogeologiche. Ho già sottoposto la questione al sottosegretario Delrio e spero ci possa essere una decisione in tempi rapidi”.

Il 26 gennaio 2015 anche il consiglio comunale di Milano votava una mozione per spostare i fondi non usati per la Via d’Acqua sul dissesto idrogeologico di Milano, e nelle settimane seguenti il sindaco ribadì di aver posto la questione al commissario Sala. Che si impegnò a girarla al cda di Expo e al Governo. Ma al Seveso, quei 30 milioni, non arrivarono mai.

via d'acqua seveso

  • Autore articolo
    Roberto Maggioni
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    C’è un tesoro in Italia, ambito da sempre, ed è il tesoro delle Assicurazioni Generali. Chi comanda a Trieste, comanda su un pezzo importante del paese. Per 70 anni il tesoro delle Generali è stato controllato da Mediobanca, che una volta era il salotto del capitalismo familiare italiano e oggi è una solida banca milanese. Nell’ultimo anno, grosso modo, due capitalisti nostrani, non si sa se anche coraggiosi, Francesco Gaetano Caltagirone, insieme a Francesco Milleri, hanno portato a termine il colpo del secolo: con un’operazione di scambio di azioni – e con il concorso esterno del MPS, fino a qualche mese fa banca di stato - hanno cacciato i vecchi azionisti dagli uffici di piazzetta Cuccia a Milano (Mediobanca) e al loro posto ci hanno messo se stessi più alcuni amici. In questo modo l’immobiliarista e editore Caltagirone, insiene al socio un po’ litigioso degli eredi Luxottica, hanno preso il controllo di Mediobanca. E lo hanno fatto con l’aiuto del MPS, banca pubblica privatizzanda. Preso il controllo di Mediobanca, i “nostri” Caltagirone&Soci hanno cominciato a vedere terra, la costa triestina, la casa mitteleuropea di Generali. Ora, su tutta questa operazione – sommariamente sintetizzata – qualcosa non ha funzionato. La Procura di Milano sta indagando per il mancato rispetto di alcune importanti formalità da codice penale: il “concerto” non previsto, il rispetto del “mercato” e delle autorità di controllo. Aspettiamo fiduciosi che la giustizia faccia il suo corso, mentre la politica rivendica i suoi meriti, giusti o sbagliati che siano. Pubblica oggi ha ospitato il giornalista e saggista Vittorio Malagutti (Domani) e il senatore del Pd Antonio Misiani.

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