Approfondimenti

Il nuovo governo all’ombra di Erdoğan

Uscito di scena Davutoğlu, è Binali Yıldırım – fedelissimo di Erdoğan – a prendere le redini del governo turco. Il cambio segna un nuovo passo verso un presidenzialismo di fatto

Stabilità. È questa la parola d’ordine che ha portato il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) a riconquistare la maggioranza assoluta alle ultime elezioni del 1 novembre 2015. Ma a meno di sette mesi dalla formazione del quarto governo monocolore AKP la stabilità non sembra essere una priorità della scena politica turca. Le dimissioni dell’ex premier Ahmet Davutoğlu annunciate lo scorso 5 maggio sono state l’ultima manifestazione di questa tendenza.

Tuttavia, non si può dire che nella politica turca manchi la continuità. Con un essenziale tema dominante: l’introduzione di un regime presidenzialista, mirato ad abolire l’attuale sistema parlamentare. Binali Yıldırım, premier in carica da martedì scorso, ha già annunciato che l’obiettivo del nuovo governo è proprio quello di introdurre il presidenzialismo in Turchia. E mercoledì Erdoğan ha presieduto la prima riunione di governo, a simboleggiare la volontà di avere totale controllo sull’esecutivo.

Davutoğlu out

Le dimissioni di Davutoğlu, consegnate “per obbligo” e non “per mancanza di successi” come ha detto l’ex premier, che nei sondaggi più recenti risultava aver quasi eguagliato la popolarità di Erdoğan, sono considerate una conseguenza dell’esercizio effettivo dei poteri derivanti dalla sua carica politica. Una intraprendenza che lo avrebbe portato in alcune occasioni anche a scavalcare il presidente. E sebbene l’ex premier ribadisse ad ogni occasione l’armonia nei rapporti con Erdoğan, sempre più frequentemente i due rilasciavano dichiarazioni contrastanti su alcuni argomenti fondamentali. In particolare sul sistema presidenziale, sulla questione curda, ma anche sul controverso accordo riguardante i migranti, siglato con l’Unione europea (UE).

Non a caso, proprio prima che Davutoğlu annunciasse le dimissioni, il quotidiano britannico Financial Times aveva pubblicato un articolo in cui si descriveva il rapporto confidenziale venutosi a creare tra Davutoğlu e i leader europei. Il giornale londinese, secondo il quale il premier avrebbe proposto l’accordo sui migranti ad Angela Merkel senza consultare Erdoğan, citava alcuni funzionari vicini all’ex premier che si dicevano preoccupati per le sorti di Davutoğlu.

Yıldırım in

Il nuovo premier, Binali Yıldırım, è considerato tra gli uomini più fidati di Erdoğan, che lo ha indicato quale unico candidato per la leadership del partito. E’ tra i fondatori dell’AKP. La collaborazione di Yıldırım con il presidente risale al 1994, quando quest’ultimo era sindaco di Istanbul. Già alla direzione dei collegamenti via mare della città, Yıldırım è stato poi nominato ministro per i Trasporti in ben quattro governi AKP. Nel 2014, dopo essere stato indicato dal partito quale candidato sindaco di Izmir – senza tuttavia venire eletto – è diventato consigliere speciale del presidente.

Yıldırım ha sfidato l’ex premier per la leadership del partito nel congresso dello scorso settembre dove ha prevalso Davutoğlu, che avrebbe a sua volta cercato di escludere l’avversario dal governo dopo le elezioni di novembre. Ma Yıldırım, appoggiato da Erdoğan, non solo è stato riconfermato ministro per i Trasporti, ma alla fine dello scorso aprile si è mosso per la raccogliere le firme dei membri del Consiglio direttivo del partito che hanno conseguentemente privato Davutoğlu del diritto di nominare gli amministratori locali dell’AKP. Una decisione che risulta essere stata determinante nelle dimissioni dell’ex premier.

I giochi nel nuovo esecutivo

Otto politici sono stati esclusi dal nuovo governo. Tra questi anche il diplomatico in carriera Volkan Bozkır, ex ministro agli affari europei, sostituito da Ömer Çelik, già giornalista ed ex ministro per la Cultura e il Turismo, la cui nomina indicherebbe secondo alcuni osservatori la volontà di Erdoğan di controllare in prima persona i rapporti con l’Unione europea. A rimanere fuori dall’attuale gabinetto dei ministri ci sono anche l’ex vice ministro Yalçın Akdoğan – seppur considerato una figura molto vicina a Erdoğan – e il ministro per la Cultura e il Turismo Mahir Ünal, entrambi al centro dell’ultimo incontro (la famosa “riunione di Dolmabahçe”) riguardante il processo di pace con i curdi.

Il “processo di risoluzione” (della questione curda) trattato in tre pagine del precedente governo Davutoğlu risulta completamente assente nel programma del nuovo governo Yıldırım. Il terzo nome che aveva partecipato alla riunione di Dolmabahçe, il ministro dell’Interno Efkan Ala, ha però mantenuto il posto, a indicare la continuità delle politiche di sicurezza nel paese, in particolare nelle regioni sudorientali a maggioranza curda, devastate dallo scorso luglio dagli scontri tra le forze armate e di polizia con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK).

E pure il ministro Bekir Bozdağ, titolare del ministero per la Giustizia, si è visto riconfermare la carica. Una figura essenziale quella di Bozdağ, che si troverà a gestire attraverso il ministero che guida le pesanti accuse di corruzione rivolte ad alcuni membri del governo AKP e al suo entourage nel dicembre 2013. Altre differenze che colpiscono nel programma del nuovo governo sono anche la mancanza di un riferimento alla “trasparenza” e alla “lotta alla corruzione” come pure l’assenza dell’intenzione – espressa dal precedente programma Davutoğlu – di riconoscere uno statuto legale alle cemevi, luogo di culto degli aleviti, minoranza musulmana più imponente del paese, con circa 20 milioni di adepti.

Presidenzialismo di fatto

Davutoğlu era una figura tutt’altro che antagonistica a quella di Erdoğan, ma dotato ancora di una certa autonomia. La sua uscita di scena, secondo diversi osservatori, segna la fine del premierato in Turchia. Il “presidenzialismo di fatto”, che ha iniziato a prendere piede con l’elezione – nell’agosto 2014 – a suffragio universale di Erdoğan alla presidenza della Repubblica, risulta ora ancora più radicato nel paese. Tuttavia manca ancora una base giuridica. Secondo la costituzione turca, il capo dello Stato ricopre infatti un ruolo essenzialmente rappresentativo, di conseguenza la modifica alla costituzione risulta tra le prime finalità del governo.

Si tratta di un cambiamento che potrebbe interessare l’intera costituzione, oppure, in un primo momento, solo alcuni articoli costituzionali. Nel primo caso si andrebbe a ridefinire e ad allargare l’ambito del potere esecutivo del presidente, approdando ad un sistema presidenziale “alla turca” che comporta ancora numerose incognite. Nell’eventualità, invece, di una modifica limitata solo a determinati articoli si andrebbe a formulare il cosiddetto “presidenzialismo partitico”, dove i rapporti tra il presidente e il suo partito andrebbero ufficialmente re-instaurati. Quest’ultima è una formula menzionata sempre più spesso dai rappresentanti dell’AKP, che ritengono possa essere più facilmente approvata in sede parlamentare. Si tratterebbe in definitiva di una tappa intermedia nella direzione di un presidenzialismo valido a tutti gli effetti.

Nuove elezioni in vista?

Secondo il politologo Baskın Oran “Erdoğan sta cercando di restare in piedi con una coalizione, che nella sua idea è composta da se stesso, dalle Forze armate, dall’intelligence, dal MHP e dagli ultranazionalisti. Accomunati tutti dall’antagonismo verso i curdi”. Questo antagonismo si è reso più visibile quando venerdì scorso il parlamento ha approvato con 376 voti su 550 la revoca dell’immunità di 138 deputati. La revoca interessa in particolar modo 50 parlamentari (su 59) del filo-curdo Partito democratico dei popoli (HDP), accusati di attività terroristica.

Secondo la costituzione bastano 28 seggi non occupati per andare ad elezioni straordinarie. E nel caso in cui si arrivi a delle condanne – un’eventualità percepita come altamente probabile – non si esclude che l’AKP possa cercare di percorrere la strada delle consultazioni per aumentare il numero dei propri deputati.

L’AKP ha infatti la maggioranza in parlamento (con 316 seggi su 550), ma non dispone del numero minimo di 330 deputati necessari per portare a referendum popolare l’emendamento della Costituzione. E le formazioni dell’opposizione, in particolare il Partito repubblicano del popolo (CHP) e il Partito di azione nazionalista (MHP), stanno attraversando una profonda crisi. Dal suo canto, il filo-curdo Partito democratico dei popoli (HDP), continua a essere il primo bersaglio del governo e, nel caso di nuove elezioni, potrebbe rischiare di essere estromesso dal parlamento.

di Fazila Mat

Tratto da Osservatorio Balcani Caucaso

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    Osservatorio Balcani Caucaso
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    Società Civile per il No. È nato il comitato, promosso da vari esponenti della società civile, da sindacati, associazioni e realtà democratiche, che sostiene le ragioni del No al referendum costituzionale sulla riforma della Giustizia del Guardasigilli Carlo Nordio. Presieduto da Giovanni Bachelet, il comitato ha nel direttivo nomi importanti come il segretario della Cgil Maurizio Landini, la presidente di Libertà e Giustizia Daniela Padoan e l’ex ministra Rosy Bindi. I principali punti del comitato vertono sul fatto che una magistratura autonoma, indipendente, che non guarda in faccia a nessuno sia una cosa che conviene ai cittadini. Il prossimo 10 gennaio a Roma si terrà la prima assemblea generale, per la partenza della campagna referendaria, che vedrà la nascita di comitati territoriali in tutta Italia per lanciare una campagna informativa sulle ragioni del No. “Riteniamo che sia una battaglia per evitare che venga minato un principio fondamentale della nostra democrazia”, ha detto Rosy Bindi, che fa parte del direttivo del comitato, nella nostra trasmissione Radio Sveglia. L'intervista di Alessandro Braga.

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