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Il femminicidio è collegato all’ecocidio: la denuncia delle donne indigene alla Cop26

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Il legame tra il corpo e la terra, per le donne indigene – dal Canada al Brasile fino all’Ecuador – non è solo un’idea astratta. È un legame viscerale.

A Glasgow, mentre nei palazzi della Cop26 era la giornata dedicata alle questioni di genere legate al cambiamento climatico, fuori – per le strade – le donne indigene vestite di rosso, hanno ricordato l’ineluttabilità di questo legame, e la sua drammaticità.

“Le nostre donne spariscono intorno alle fabbriche, intorno ai siti estrattivi di petrolio, intorno alle miniere di diamanti”, dice Sii-am Hamilton, attivista first nation canadese. Spiega che le donne e le ragazze indigene sono considerate come oggetti usa e getta, disponibili al consumo. Esattamente come la Madre Terra viene trattata dagli uomini: come una risorsa a nostro uso e consumo.

“Guardate la mia faccia”, continua Hamilton, “e ricordatavela. Perché se sei coinvolta nella protezione delle terre non è ‘se sparirò’, è ‘quando’. Quindi guardatemi, ricordatemi, e quando sparirò, venite a cercarmi”.
Le donne First Nations canadesi sono vittime di violenza più di qualunque altro gruppo umano e hanno 12 volte più probabilità di essere uccise o di sparire. Ma, come ricordano dal palco di Glasgow mentre commemorano le loro madri e sorelle che sono morte nel cercare di salvare la loro terra, “Il femminicidio è collegato all’ecocidio”.

Già nel 2019, un’inchiesta condotta dal Canada sulle sparizioni, gli omicidi, gli stupri e gli abusi di donne e ragazze all’interno delle comunità indigene ha accertato il collegamento tra queste violenze e i le “Boomtown” – cioè i siti di estrazione del petrolio – con i loro “Man Camps” ovvero gli alloggi temporanei dove i lavoratori dei giacimenti e delle miniere vivono. È un collegamento provato e dimostrato, ma nessuno – tra le mura della Conferenza delle parti sul clima – ha nemmeno riconosciuto il problema.

Lo sfruttamento della terra e lo sfruttamento dei corpi delle donne. “Non credo che abbiano capito quando la nostra vita è diventata pericolosa”, continua Hamilton. Le comunità indigene sono responsabili della salvaguardia dell’80% della biodiversità presente sulla Terra, e sono da sempre in prima linea nella lotta contro il cambiamento climatico e lo sfruttamento delle risorse.

Nel 2020 almeno 227 attiviste e attivisti indigeni in difesa della terra e dell’ambiente sono stati uccisi. Una media di più di quattro persone ogni settimana. Secondo il rapporto di Global Witness quasi un terzo degli omicidi è collegato allo sfruttamento delle risorse: disboscamento, estrazione mineraria, agroindustria su larga scala, dighe idroelettriche e altre infrastrutture.

All’intensificarsi della crisi climatica corrisponde quindi un aumento della violenza nei confronti di chi la terra e il pianeta li protegge. È ormai evidente – si legge nel rapporto Global Witness – che lo sfruttamento e l’avidità che guidano la crisi climatica stanno anche causando la violenza nei confronti di chi difende la terra e l’ambiente.
Ma nonostante questo, le comunità indigene e soprattutto le donne – non rinunciano a difendere la terra che li ospita. “People are gonna rise like the water” cantano, “La gente insorgerà”.

  • Autore articolo
    Martina Stefanoni
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    Lo studio del Politecnico di Milano: in Lombardia c’è un legame diretto tra smog e arresti cardiaci

    Più è alto il livello di inquinamento atmosferico, più aumenta il rischio di subire un arresto cardiaco. Uno studio del Politecnico di Milano rivela che in Lombardia c’è un legame tra i picchi di smog e la salute cardiovascolare. I ricercatori hanno analizzato oltre 37.000 casi registrati nel territorio lombardo tra il 2016 e il 2019, associandoli alle concentrazioni giornaliere degli inquinanti. Il rischio cresce nei mesi caldi e si presenta anche quando i livelli delle polveri sottili sono inferiori ai limiti di legge. Lorenzo Gianquintieri è un ricercatore del Politecnico di Milano che ha partecipato allo studio.

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    Un percorso attraverso la stratificazione sociale italiana, un viaggio nell’ascensore sociale del Belpaese, spesso rotto da anni e in attesa di manutenzione, che parte dal sottoscala con l’ambizione di arrivare al roof top con l’obiettivo dichiarato di trovare scorciatoie per entrare nelle stanze del lusso più sfrenato e dell’abbienza. Ma anche uno spazio per arricchirsi culturalmente e sfondare le porte dei salotti buoni, per sdraiarci sui loro divani e mettere i piedi sul tavolo. A cura di Alessandro Diegoli e Disma Pestalozza

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