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Il Best of del 2017. L’anno delle donne

Per la prima volta – e chissà se mai capiterà ancora – una serie televisiva troneggia al primo posto della classifica dei film dell’anno stilata dai “Cahiers du cinéma” (ovvero la bibbia dei cinefili): è Twin Peaks, o meglio il suo ritorno, la terza stagione firmata da David Lynch e Mark Frost oltre 25 anni dopo la fine delle prime due annate, che all’inizio degli anni 90 cambiarono per sempre l’idea di serie tv.

Qualcuno ha gridato alla lesa maestà, ma chi ha seguito quest’estate il nuovo Twin Peaks ha probabilmente colto l’impossibilità di etichettare questo esperimento straordinario e vario, strano e meraviglioso, un viaggio che ha saputo davvero lasciarsi alle spalle qualsiasi confine tra piccolo e grande schermo.

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Ma l’incoronazione di Twin Peaks – non solo dai parte dei “Cahiers” – è importante anche per fare il punto sul 2017 della serialità televisiva: e per scoprire che, pur senza poter ambire alle vette del surrealismo lynchano, l’annata catodica appena conclusa è stata molto “sperimentale”. Da qualche anno gli esperti identificano quest’epoca come quella della “Peak tv”, in cui la produzione televisiva sfiora, solo in America, il picco di 500 serie originali all’anno: esistono in Usa molte più reti televisive, le piattaforme streaming tipo Netflix investono pesantemente in contenuti originali, ci sono i grandi fenomeni che tutti guardano e di cui tutti parlano (come Il trono di spade o Stranger Things, o, in Italia, Gomorra) ma anche tanti piccoli esperimenti destinati a pubblici più piccoli che, una volta, non avrebbero trovato mercato o visibilità.

E così la serialità televisiva, oltre a essere tanta, è anche varia. Accoglie temi, voci, protagonisti che una volta nessun dirigente dei network avrebbe nemmeno preso in considerazione, idee che un tempo sarebbero state bollate come folli: dal mix tra supereroico e psichedelia di Legion alla visionarietà sfrenata di American Gods e del finale di The Leftovers, dalla malattia mentale in musical di Crazy Ex-Girlfriend alla questione razziale sezionata con ironia in Dear White People, dal bullismo raccontato via audiocassetta in Tredici a quello dissacrato nel finto documentario American Vandal, e l’elenco potrebbe continuare a lungo.

L’Academy televisiva se ne vanta con ipocrita stucchevolezza, è vero, ma il fatto che questa sia stata la stagione televisiva più varia anche dal punto di vista etnico e di genere, lungi dall’essere un traguardo, è un punto di partenza che conferma quanto la tv americana sappia corrispondere nell’immediato all’attualità: il 2017 è stato indubbiamente l’anno delle donne, anche in tv, da Big Little Lies a The Handmaid’s Tale, fino alla bellissima miniserie Feud, che in Italia arriverà il prossimo 7 gennaio. Con l’augurio di un 2018 altrettanto ricco.

  • Autore articolo
    Alice Cucchetti
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    Il Maestro, caduta e rinascita di un ex divo del tennis nella Roma degli anni ‘80

    Raul Gatti è un ex campione del tennis caduto in disgrazia, alcolista e disoccupato, interpretato da Pierfrancesco Favino nel film Il Maestro: “Ho seguito il tennis fin da ragazzo e mi sono subito affezionato a questo personaggio perdente, il più fallito che ho interpretato nella mia vita. Perché anche quelli che ho rappresentato in passato, per quanto fossero decaduti, avevano comunque un atteggiamento da vincenti”. Siamo negli anni ‘80 e Gatti viene assoldato per allenare un giovanissima promessa, Felice Milella, un ragazzino di 13 anni con i numeri per partecipare ai match più prestigiosi. Il regista Andrea Di Stefano aveva questo progetto nel cassetto molto prima che il tennis tornasse ad essere uno sport di moda: “Ho scritto questa sceneggiatura nel 2006, l’ho depositata e abbiamo le prove – ironizza il regista. Doveva essere il mio primo lungometraggio, prima ancora di realizzare L’ultima notte di Amore, con Pierfrancesco Favino, a cui avevo già pensato allora per questo personaggio di divo decaduto”. L'intervista di Barbara Sorrentini al regista Andrea Di Stefano e a Pierfrancesco Favino.

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