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Maggioranza all’AKP. Vince la paura

Due cose mi avevano colpito nei giorni scorsi, durante il viaggio nel Kurdistan turco. Il realismo di alcuni alti funzionari governativi, che ammettevano senza problemi di non aspettarsi una vittoria schiacciante nelle elezioni politiche anticipate, ma anche i commenti di diversi curdi, ormai scettici nei confronti della politica, anche del partito che li dovrebbe rappresentare, il Partito Democratico del Popolo (HDP). “Sono sempre stato un patriota – mi ha confessato un giovane curdo di 26 anni originario di Suruc – e la mia famiglia lo stesso, ma da quando sono riprese le violenze e la gente è tornata a morire mi chiedo se tutto questo abbia veramente senso. Forse non voterò più”.

Non a caso in queste ore all’interno del fronte curdo è cominciato lo scambio di accuse reciproche tra chi sostiene la lotta armata e chi invece è convinto che non ci sia alternativa al dialogo e alla politica. Esattamente quello che voleva l’AKP, che molti accusano di aver ripreso il conflitto con il PKK proprio per raggiungere quest’obiettivo. Impossibile dire che cosa sia successo dietro le quinte, ma di sicuro la società turca ha votato per avere un governo forte, forse anche più forte di quello degli ultimi anni. L’instabilità e le violenze dell’ultimo periodo hanno fatto paura, e il voto per il partito di Erdogan lo dimostra.

Che cosa succederà adesso? La risposta più semplice è che in Turchia ci sarà sempre meno spazio per le opposizioni e per le voci contrarie. Ma in effetti questa sembra una lettura troppo superficiale. Non è da escludere, invece, che proprio grazie al fatto di avere nuovamente il pieno controllo del governo e dello stato, l’AKP non diventi più dialogante su una serie di questioni, a partire da quella curda. In effetti dall’inizio dell’era Erdogan, ormai 13 anni fa, alcuni progressi, anche se molto limitati, sono stati fatti. Non bisogna poi dimenticare che il paese è in piena crisi economica. I grandi progetti e le infrastrutture faraoniche non sono più sufficienti a trascinare l’economia, che fino a poco tempo fa cresceva ogni anno oltre il 10%. Il governo è il primo ad avere bisogno di un sistema economico che funzioni e che riprenda a crescere a buon ritmo. E questo richiede, nuovamente, stabilità politica, non certo una guerra infinita contro la guerriglia curda.

La Turchia è poi un attore importante a livello regionale, a cominciare dalla guerra in Siria. Erdogan è tra i principali oppositori del regime di Assad, e con questo risultato elettorale potrà continuare a decidere in solitario la sua politica estera. Tutto questo però ha dei rischi. Ankara ha accusato l’ISIS per i recenti attentati sul suo territorio – Suruc a luglio, Ankara tre settimane fa – dimenticandosi di aver fatto passare dal suo territorio la maggior parte dei combattenti stranieri e delle armi che sono arrivate allo Stato Islamico in questi anni. Meno di un anno fa, sul confine con la Siria, alcuni trafficanti siriani ci avevano raccontato di avere fatto passare di tutto attraverso quella frontiera, senza la minima opposizione da parte delle autorità turche. Erdogan ha vinto le elezioni, ma per tirare fuori il paese dai guai deve dimostrare maggior coraggio politico e meno paura dei suoi avversari. Un governo forte non vuol dire un governo autoritario, altrimenti tra pochi mesi la Turchia sarà al punto di prima.

  • Autore articolo
    Emanuele Valenti
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    Società Civile per il No. È nato il comitato, promosso da vari esponenti della società civile, da sindacati, associazioni e realtà democratiche, che sostiene le ragioni del No al referendum costituzionale sulla riforma della Giustizia del Guardasigilli Carlo Nordio. Presieduto da Giovanni Bachelet, il comitato ha nel direttivo nomi importanti come il segretario della Cgil Maurizio Landini, la presidente di Libertà e Giustizia Daniela Padoan e l’ex ministra Rosy Bindi. I principali punti del comitato vertono sul fatto che una magistratura autonoma, indipendente, che non guarda in faccia a nessuno sia una cosa che conviene ai cittadini. Il prossimo 10 gennaio a Roma si terrà la prima assemblea generale, per la partenza della campagna referendaria, che vedrà la nascita di comitati territoriali in tutta Italia per lanciare una campagna informativa sulle ragioni del No. “Riteniamo che sia una battaglia per evitare che venga minato un principio fondamentale della nostra democrazia”, ha detto Rosy Bindi, che fa parte del direttivo del comitato, nella nostra trasmissione Radio Sveglia. L'intervista di Alessandro Braga.

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