Attorno alla metà degli anni Ottanta, il “buco dell’ozono” fu tra le prime emergenze ambientali globali a scuotere la coscienza collettiva. Le immagini satellitari che rivelavano la presenza di una sorta di voragine chimica nell’atmosfera sopra l’Antartide divennero il simbolo della prima, storica presa di coscienza da parte dell’umanità del proprio potere distruttivo sull’ambiente a livello planetario. Quarant’anni dopo, la storia del buco dell’ozono racconta una rara vittoria della cooperazione internazionale, ma introduce anche un nuovo capitolo di sfide inattese, legate all’industria spaziale e alla proliferazione di satelliti in orbita attorno alla Terra.Lo strato di ozono è una sottile fascia di gas che si concentra nella stratosfera, tra i 15 e i 35 chilometri di quota. La sua funzione è vitale: assorbe la maggior parte delle radiazioni ultraviolette provenienti dal Sole, proteggendo la vita sulla Terra da squilibri negli ecosistemi marini e terrestri e da degenerazioni genetiche, che nel caso dell’uomo significano tumori cutanei. Negli anni Settanta, alcuni scienziati individuarono il principale colpevole del suo deterioramento: i clorofluorocarburi (CFC), gas largamente impiegati in frigoriferi, aerosol e sistemi di condizionamento. Queste sostanze, una volta rilasciate nell’atmosfera, migrano verso la stratosfera, dove le loro molecole si spezzano liberando atomi di cloro che distruggono le molecole di ozono, in una reazione a catena. L’allarme divenne concreto nel 1985, quando una squadra di ricercatori del British Antarctic Survey scoprì un assottigliamento record dello strato di ozono sopra l’Antartide. Le indagini satellitari della NASA confermarono la presenza di un buco di dimensioni continentali, e la comunità internazionale capì che il problema non poteva più essere ignorato.La risposta fu rapida e, per molti versi, esemplare. Nel 1987, 46 Paesi firmarono il Protocollo di Montreal, un accordo vincolante per la progressiva eliminazione delle sostanze responsabili dell’impoverimento dell’ozono, in particolare CFC, Halon e altre sostanze chimiche alogenate. L’accordo venne rafforzato nel corso degli anni con numerosi emendamenti e oggi conta la partecipazione di 198 Stati, praticamente la totalità dei membri delle Nazioni Unite. Secondo le valutazioni dell’ONU, si tratta del trattato ambientale più efficace mai adottato: ha impedito l’immissione nell’atmosfera di miliardi di tonnellate di sostanze ozono-lesive e ha permesso un lento ma costante processo di recupero dello strato protettivo. Le stime più recenti dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale e del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente indicano che, proseguendo ai ritmi attuali, intorno alla metà del XXI secolo lo strato di ozono potrebbe tornare ai livelli pre-1980. Un risultato che dimostra come la cooperazione globale, sostenuta dalla scienza, possa produrre effetti concreti e duraturi.Tuttavia, mentre la Terra tenta di guarire le ferite del passato, nuove preoccupazioni si affacciano all’orizzonte. Il boom dell’industria spaziale – alimentata da colossi come SpaceX, Amazon e OneWeb – e il lancio di migliaia di satelliti stanno introducendo nell’atmosfera quantità crescenti di sostanze potenzialmente dannose per l’ozono. Ogni razzo rilascia in stratosfera particelle di fuliggine, ossidi di azoto e composti del cloro e dell’alluminio derivanti dai propellenti. Queste sostanze, pur in quantità molto inferiori rispetto ai CFC del passato, esercitano il loro impatto proprio nella regione dell’atmosfera in cui si trova lo strato di ozono. Secondo uno studio pubblicato nel 2023 sulla rivista Earth’s Future, le emissioni dei lanci spaziali potrebbero crescere di dieci volte entro il 2030, con effetti ancora poco compresi sulla chimica stratosferica. Inoltre, il rientro in atmosfera di satelliti dismessi o bruciati durante il rientro genera una “pioggia” di nanoparticelle metalliche che potrebbero alterare l’equilibrio chimico delle fasce superiori dell’atmosfera, compromettendo i progressi ottenuti in decenni di politiche ambientali.La corsa allo Spazio, un tempo monopolio delle superpotenze, è oggi un business globale che coinvolge centinaia di aziende private. La cosiddetta “mega-costellazione” di satelliti pensata per fornire internet ad alta velocità in ogni punto del pianeta (e, tra poco, un cloud per l’intera umanità) promette vantaggi tecnologici e sociali indiscutibili, ma pone interrogativi urgenti sulla sostenibilità del modello attuale.La comunità scientifica chiede regole più chiare e una nuova governance internazionale che tenga conto dell’impatto atmosferico dei lanci e dei rientri spaziali. Se il buco dell’ozono fu il campanello d’allarme della fine del Novecento, la sfida odierna è non ripetere lo stesso errore su scala orbitale, magari illudendosi che lo Spazio sia un altrove senza relazioni con la Terra. Ogni razzo che attraversa l’atmosfera lascia una traccia invisibile, ma concreta, nel delicato equilibrio del nostro pianeta. Nel cielo, dove un tempo vedevamo solo stelle, ora orbitano migliaia di satelliti: simboli di progresso, ma anche potenziali agenti di un nuovo tipo di inquinamento. La sfida è assicurarsi che il futuro dell’esplorazione spaziale non comprometta la sottile barriera che, da milioni di anni, ci protegge dal Sole.


