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I montanari che salvano i migranti dal gelo

Più di un metro di neve fresca e polverosa, temperature che scendono fino a – 20°C e raffiche potenti che spazzano la montagna sotto al limpido cielo invernale. Siamo a 1.700 metri d’altezza, vicino al Col de l’échelle, piccolo passo alpino che separa la Francia dall’Italia. A meno di 10 chilometri da qui, c’è già chi scia sulle piste di Bardonecchia, in val di Susa. Questa è, ormai da più di un anno, la nuova strada dei migranti che vogliono lasciare l’Italia.

Bloccati a Ventimiglia e al Brennero, arrivano in treno fino a Bardonecchia o Oulx e si incamminano sulle montagne a piccoli gruppi per raggiungere Briançon. Come cartina, un cellulare che spesso non prende; ai piedi, se va bene, delle scarpe da ginnastica di tela e delle calze. Per evitare le pattuglie di gendarmi lungo la strada, non esitano a lasciare i sentieri battuti, finendo per perdersi o ferirsi anche gravemente. Dall’inizio dell’anno sono passate più di 1.500 persone, soprattutto uomini originari del Mali, della Guinea e della Costa d’Avorio. Moltissimi sono minorenni. E la neve non basta a scoraggiarli: ogni giorno arriva una decina di persone in valle, nonostante il gelo e il rischio di valanghe sul versante italiano.

Per far fronte alla situazione, in mancanza di una risposta che non sia la militarizzazione della frontiera da parte dello Stato francese, i montanari hanno creato una rete di solidarietà che coinvolge più di 1.300 persone in tutta la regione di Briançon. Non tutti sono favorevoli ai migranti ma nessuno riesce a rimanere indifferente, figurarsi abbandonare qualcuno sui monti conoscendo i rischi che si corrono. Cosi’ c’è chi li accoglie, chi li cura, chi li aiuta a fare il bucato, chi offre sostegno giuridico e chi organizza, ogni sera, ronde per cercare i dispersi in montagna. Alcuni hanno dato i loro numeri di cellulare e ricevono spesso richieste d’aiuto da ragazzi che non sanno minimamente orientarsi sulle Alpi. E tutti si chiedono non se, ma quanti corpi verranno ritrovati questa primavera, al disgelo.

Domenica scorsa, dalla valle francese della Clarée sono saliti in 250: valligiani, guide alpine, qualche giornalista e qualche personaggio noto hanno formato una cordata solidale per denunciare una situazione sempre più pericolosa e il silenzio dello Stato. Sarebbe dovuta essere una semplice azione dimostrativa ma si è trasformata in un’operazione di salvataggio. Un giovane della Guinea Conakry è stato ritrovato in un canalone di valanga senza scarpe. Aveva iniziato a salire verso il passo dell’Echelle alle 5 del mattino. Ecco il video.

  • Autore articolo
    Luisa Nannipieri
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    Dovevano essere i presidi con cui ricostruire la sanità sul territorio in Lombardia, ma finora le case di comunità sono state un flop. 216 sono quelle previste entro la scadenza dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza che arriverà a giugno 2026. Al momento 140 hanno aperto, ma solo otto in tutta la regione (sei in provincia di Bergamo e due nel varesotto) hanno tutti i requisiti obbligatori previsti dalla legge. In totale sono meno del 6 percento. La denuncia è del gruppo consiliare del Partito democratico lombardo che ha fatto un accesso agli atti alla direzione generale Welfare per ognuna delle case di comunità attive in Lombardia. L’assessorato ha replicato che i numeri diffusi “sono usati in modo difforme dalla realtà. Le rilevazioni mostrano percentuali elevate di attuazione per la maggior parte dei servizi obbligatori”. Per il capogruppo del Pd al Pirellone, Pierfrancesco Majorino, “Regione Lombardia è in colpevole ritardo”.

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