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Iraq. Tutte le colpe di Tony Blair

Non lascia dubbi il rapporto presentato oggi a Londra sulla decisione britannica di invadere l’Iraq nel 2003, assieme agli Stati Uniti. La decisione di entrare in guerra fu presa “prima di esaurire altre opzioni di disarmo”.

Attaccare e occupare uno stato sovrano – per la prima volta dopo la fine della seconda Guerra Mondiale – fu una scelta di “estrema gravità” da parte di Tony Blair, l’allora premier. Certo, il rapporto descrive Saddam Hussein come un brutale dittatore, che reprimeva il suo popolo e minacciava i paesi vicini. Ma l’attacco militare non era “l’ultima risorsa” contro Saddam: prima, si potevano tentare altre strade.

iraq chilcot

Quel che era evidente a 1 milione e mezzo di britannici che manifestarono nel 2003 contro la guerra in Iraq è ora scritto nero su bianco. Il rapporto Chilcot è monumentale: conta 2,6 milioni di parole, 12 volumi e un riassunto di 145 pagine. Ci sono voluti 7 anni per scriverlo e pubblicarlo: troppi, secondo il partito laburista. Il premier Gordon Brown aveva dato l’incarico a Sir John Chilcot nel 2009, in seguito a forti pressioni da parte dell’opinione pubblica.

Di sicuro le accuse contro Tony Blair sono durissime. Secondo l’inchiesta, le sue opinioni personali furono decisive. “Sarò con te in tutti i casi” disse il premier britannico a George Bush durante una visita al suo ranch in Texas. Un assegno in bianco al presidente degli Stati Uniti.

Blair – secondo alcune note che scrisse allora – era guidato dalla convinzione che Saddam dovesse essere eliminato e attorno a questa convinzione costruiva la sua politica, senza basarla su fatti e valutazioni reali. La pericolosità di Saddam Hussein fu dunque esagerata.

Il famoso dossier presentato alla Camera dei Comuni nel settembre 2002 non provava affatto che l’Iraq stava rafforzando il suo arsenale di armi chimiche e biologiche. Inoltre, Blair trascinò la gran Bretagna in guerra senza avere la certezza che gli obiettivi dell’intervento militare potessero essere raggiunti.

Saddam Hussein non costituiva una minaccia immediata, sostiene il rapporto. La strategia di “contenimento” del dittatore poteva continuare ancora a lungo. Le sue armi “di distruzione di massa” furono presentate come un pericolo certo, anche se di certo non c’era nulla. Non ci furono preparativi per affrontare il dopo-Saddam in Iraq e le conseguenze dell’intervento furono sotto-stimate.

Almeno 150 mila iracheni morirono, la maggior parte civili. Più di un milione di iracheni dovettero abbandonare le proprie case. “Il popolo iracheno ha sofferto enormemente” si legge nel rapporto.

Il testo non si addentra nella questione della legalità dell’intervento. Ma fa notare che Blair neppure si preoccupò di questo aspetto, dato che non chiese neanche un parere scritto al procuratore generale britannico. Il magistrato in realtà disse a Blair che un intervento militare senza una seconda risoluzione Onu sarebbe stato illegale, ma questo non servì a fermare Blair. La decisione britannica di entrare in guerra – scrive il rapporto – di fatto minò l’autorità del consiglio di Sicurezza dell’Onu.

iraq blair

Eppure Blair – secondo il rapporto Chilcot – poteva tirarsi indietro senza rompere la relazione di stretta partnership con gli Stati Uniti. C’erano dei precedenti: la crisi di Suez, la guerra del Vietnam e la guerra delle Falkland, dove i due alleati non avevano combattuto insieme. Ma Blair, da metà marzo 2003, accettò in toto la tabella di marcia di Bush, biasimando i paesi – come la Francia – che non avevano voluto sostenere una seconda risoluzione del consiglio di sicurezza dell’Onu che autorizzasse l’attacco.

Eppure i rischi di una destabilizzazione di tutta l’area erano già noti allora, al contrario di quanto sostenne successivamente Blair. Si prevedeva che l’Iran avrebbe voluto giocare un ruolo forte in Iraq e che i sunniti si sarebbero ribellati. Il segretario dei stato americano Colin Powell avvertì nel 2002 che ci sarebbe stata “una carneficina per vendicare la fine di Saddam”, ma non fu ascoltato. Anche l’ambasciatore britannico negli USA avvertì che sarebbe scoppiata una guerra civile in Iraq, dopo l’intervento: “A confronto, pacificare l’Afghanistan sembrerà un gioco da ragazzi”, avvertì.

Blair non aveva nessun piano per il post-Saddam. Dopo la fine della guerra, l’Iraq fu lasciato in mano all’amministrazione statunitense; la Gran Bretagna, pur avendo truppe sul terreno, ebbe scarsa influenza.

Malgrado l’impegno iniziale a contenere il numero di vittime civili, almeno 150 mila iracheni furono uccisi e non si cercò neppure di contabilizzare queste vittime. L’esercito britannico si occupò più di difendersi dalle accuse di crimini di guerra che di investigare sul proprio operato.

Il rapporto non lesina critiche neppure alla condotta della guerra. Le truppe britanniche – che persero 179 soldati – non furono dotate in tempo di veicoli corazzati, capaci di resistere agli ordigni nascosti sul ciglio delle strade; la catena di comando fu confusa e inadeguata. I soldati britannici lasciarono un paese in preda alle divisioni settarie, semi-distrutto, con una nuova classe politica dominata dalla corruzione.

Esprimo più dispiacere e scuse di quanto voi possiate credere” ha detto Tony Blair dopo la pubblicazione del rapporto. Ma l’ex premier in realtà ha cercato di difendersi, negando le accuse. “Non c’era nessun accordo segreto con Bush per arrivare alla guerra” ha sostenuto “nessuna falsificazione dei rapporti di intelligence, nessun inganno nei confronti degli altri ministri”. Blair sostiene di aver preso la decisione di attaccare l’Iraq “in buona fede” e in quello che lui credeva fosse “l’interesse della Gran Bretagna”.

Interrogato in una conferenza stampa sulla situazione dell’Iraq dopo l’invasione (“Pensa che sia migliore?”) Blair ha risposto “secondo alcuni sì. I curdi stanno meglio”. Ha aggiunto che secondo lui l’Iraq si stabilizzerà e anche il Medio Oriente. Che gli iracheni sotto Saddam Hussein non avevano speranza, mentre ora “hanno una possibilità”. Insomma: ha insistito che rimuovere il dattore fu una giusta decisione. Ha confermato che prova “dispiacere” ma non “rimorso” perché ritiene di non aver sbagliato.

Un fotomontaggio creato da una campagna pacifista che accusa Tony Blair di essere un criminale di guerra
  • Autore articolo
    Michela Sechi
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    Il 7 dicembre la Scala apre la stagione con l’opera censurata da Stalin

    Nel cinquantenario della morte di Šostakovič il Teatro alla Scala inaugura la Stagione con il suo capolavoro Una lady Macbeth del distretto di Mcensk, tratto dal racconto di Nikolaj Leskov in cui una giovane sposa con la complicità dell’amante uccide il marito e il tirannico suocero, ma viene scoperta e finisce per suicidarsi in Siberia, tradita da tutti. Dopo il debutto a San Pietroburgo, l’opera, che avrebbe dovuto essere il primo capitolo di una trilogia sulla condizione della donna in Russia, ebbe enorme successo in patria e all’estero. Stalin assistette a una rappresentazione a Mosca nel 1936; due giorni dopo apparve sulla Pravda la celebre stroncatura dal titolo “Caos invece di musica” con cui il regime metteva all’indice l’opera e il compositore. Anni dopo Šostakovič preparò una nuova versione che andò in scena a Mosca nel 1963 con il titolo Katarina Izmajlova, dopo che il sovrintendente Ghiringhelli aveva invano cercato di ottenerne la prima per la Scala. Oggi il Teatro presenta la versione del 1934 con la direzione del M° Chailly e il debutto del regista Vasily Barkhatov. Ascolta Riccardo Chailly nella presentazione dell’opera.

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