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Gran Bretagna, piovono critiche contro il piano Rwanda

UK: proteste per la deportazione in rwanda dei rifugiati

Nessun rifugiato è stato deportato dal Regno Unito in Rwanda, almeno per il momento.
Il primo volo del piano dell’Home Office, costato al Governo britannico mezzo milione di sterline, sarebbe dovuto decollare ieri con a bordo 7 persone. Nell’arco della giornata i passeggeri sono diventati 3, poi soltanto 1, fino alla totale cancellazione dell’operazione.
Anche grazie all’intervento della Corte europea dei diritti umani che si è detta contraria alla deportazione di uno dei passeggeri, un 54enne iracheno vittima di tortura, creando un precedente per i restanti sei. Questi hanno così potuto impugnare il provvedimento di allontanamento che li avrebbe costretti a lasciare il Paese.

Si tratta di una prima vittoria per le persone che da un mese a questa parte si sono battute contro il progetto della ministra dell’interno britannica Priti Patel che ha tuttavia annunciato che i preparativi per il prossimo volo inizieranno subito.
E mentre il premier Boris Johnson ha lasciato intendere che il Regno Unito potrebbe abbandonare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, è attesa per luglio una revisione giudiziaria della Corte suprema inglese sulla legittimità della manovra dell’Home Office.
Molti vedono nell’irremovibilità del Governo britannico un modo per distrarre gli elettori dall’incombente sciopero ferroviario nazionale e dal progressivo aumento dell’inflazione. Non sarebbe infatti la prima volta che un governo conservatore, di fronte ad agitazioni sociali ed economiche, tira fuori la carta della gestione dell’immigrazione clandestina per spostare l’attenzione da quelli che sono i reali e immediati problemi che creano malcontento nella popolazione.

Negli ultimi anni abbiamo assistito in diverse parti d’Europa a una crescente intolleranza nei confronti di persone disperate che scappano da situazioni critiche. Solo ieri sulle coste della Gran Bretagna ne sono sbarcate 270, facendo salire il numero totale da inizio anno a 10.500. Ma, come ha scritto Enver Solomon, capo esecutivo del Refugee Council, in un lungo editoriale pubblicato oggi sul Guardian, sembriamo esserci dimenticati delle ragioni che spingono i rifugiati a lasciare i Paesi dove sono nati e cresciuti. Le soluzioni andrebbero trovate proprio lì, nelle motivazioni che spingono un essere umano a percorrere migliaia di chilometri senza conoscere quale sarà la situazione che troverà al suo arrivo. Quanta disperazione dev’esserci dietro una scelta di questo tipo?

I finanziamenti che vengono fatti per politiche come quella dell’Home Office potrebbero invece essere investiti nel migliorare la cooperazione internazionale, i corridoi umanitari, le politiche di sviluppo in Paesi dilaniati dalle guerre, dai disastri climatici e dalle crisi economiche e umanitarie.
I nostri sistemi d’asilo, così concentrati nel contare i numeri e nel definire fenomeni migratori che, al momento, sembrano sfuggire al controllo delle istituzioni, spesso falliscono nel riconoscere i volti di persone vulnerabili e spaventate.

Eleonora Panseri
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    Redazione
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