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Gaza: le reazioni internazionali all’uscita di Trump

Trump ANSA boutade gaza

Le reazioni della comunità internazionale alle parole di Trump su Gaza sono state quasi tutte sulla stessa linea: “Incomprensibili, impraticabili, contro il diritto internazionale, la soluzione del conflitto israelo-palestinese passa dai due stati.”
Lo hanno detto praticamente tutti: palestinesi, paesi arabi, Iran, Turchia, governi europei – anche quelli storicamente più vicini agli Stati Uniti come la Gran Bretagna – Australia, Cina. Una risposta unanime.
In effetti l’uscita del presidente americano, anche se anticipata nei giorni precedenti, ha sorpreso un po’ tutti, probabilmente anche gli stessi israealiani. E rappresenta il più radicale cambio di rotta della diplomazia americana sulla questione israelo-palestinese dalla nascita dello stato di Israele nel 1948.
Le organizzazioni per i diritti umani hanno parlato di un crimine di guerra.
In sostanza – aggiungiamo noi – Trump non ha tenuto conto di tutto ciò che ha a che fare con storia, identità, terra, emozioni, diritti. A Gaza, nella maggior parte dei casi, vivono infatti le famiglie palestinesi che nel corso della storia sono state costrette a spostarsi, anche più volte, durante le ripetute guerre arabo-israeliane. L’arrivo di Trump alla Casa Bianca è stato un terremoto: un po’ lo sapevamo, un po’ lo stiamo imparando giorno dopo giorno. E per quanto riguarda il Medio Oriente le sue parole e le sue mosse si inseriscono in un contesto già di suo molto complesso. Se poi aggiungiamo il fatto che le dichiarazioni del presidente americano anticipino sempre quello che potrebbe succedere o non succedere – a volte sono delle forzature da affarista per valutare le reazioni della controparte – il quadro diventa ancora più confuso. Il nostro compito però è fare ordine.
Qui le prese di posizione che contano, a parte quelle dello stesso Trump, sono quelle del mondo arabo, tenendo anche a mente il rapporto dei paesi arabi con la questione palestinese.
Tutti i Paesi arabi – alcuni lo avevano già fatto nei giorni scorsi – hanno detto che i palestinesi di Gaza devono rimanere nella loro terra e che loro non li accoglieranno. Lo hanno detto anche Egitto e Giordania, i due Paesi che da alcuni giorni Trump cita proprio come possibile destinazione dei palestinesi della Striscia.
Per i giordani vale anche il ricordo del Settembre Nero, all’inizio degli anni ‘70, quando la monarchia cacciò i gruppi armati palestinesi che si erano insediati sul suo territorio colpendo anche i civili palestinesi. Per gli egiziani valgono le guerre contro Israele, che per diversi anni occupò il Sinai.
Egitto e Giordania sono anche i due Paesi della regione che per primi hanno riconosciuto Israele, 1979 e 1994. A parte la prossimità geografica Trump potrebbe voler giocare anche su questo.
Per loro, come per tutti i Paesi arabi, la questione palestinese rappresenta però, anche di fronte alle loro basi interne, una linea invalicabile. E in fondo è forse l’unico elemento che tiene ancora unito, in un certo modo, il mondo arabo. Come durante la sua prima presidenza l’architettura ipotizzata da Trump per pacificare il Medio Oriente dovrebbe passare dalla normalizzazione dei rapporti tra Israele e la maggior parte dei paesi arabi. Primo fra tutti, per la sua importanza, l’Arabia Saudita. Non è un caso che Riad sia stata tra i primi a commentare, negativamente, le parole su Gaza provenienti dalla Casa Bianca. I sauditi hanno ribadito che loro considerano come unica soluzione quella dei due stati, e stato vuol dire ovviamente un territorio, in questo caso quello di Gaza.
Qual è qui la strategia di Trump? Dove pensa di far cadere il punto di equilibrio il presidente americano? Perché le due cose – normalizzazione dei rapporti tra Israele e mondo arabo e pulizia etnica a Gaza – non sono compatibili. Probabilmente siamo solo all’inizio. In poche settimane Trump è andato ben oltre quello che potevamo immaginare. L’America First vale solo fino a un certo punto. Il presidente americano ha minacciato un pericoloso espansionismo, tipo Risiko: Gaza, Panama, Groenlandia, Canada. Nel caso di Gaza la sua strategia si scontra però con il quadro probabilmente più complesso. Il risultato finale lo conosceremo solo più avanti.

  • Autore articolo
    Emanuele Valenti
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    Il 2 marzo il governo israeliano ordinava il blocco totale dell’ingresso di aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Oggi, esattamente due mesi dopo, il blocco è ancora in essere e da due mesi nella Striscia non entra niente: né cibo, né acqua, né medicinali, né carburante. La situazione peggiora giorno dopo giorno, le scorte sono ormai esaurite e la fame sta dilagando. In questo contesto di blocco totale, il più lungo che Gaza abbia mai sperimentato, dove morire di fame non è più solo un modo di dire, le ong e le organizzazioni umanitarie cercano di sopperire alle colpevoli mancanze dei governi. È in quest’ottica che la nave della Freedom Flotilla Coalition, si stava preparando a partire per Gaza carica di aiuti umanitari, con l’obiettivo di rompere l’assedio. Questa notte, però, la nave è stata colpita da due droni, che hanno fatto scoppiare un incendio e ne hanno ovviamente impedito la partenza. Abbiamo raggiunto a Malta Simone Zambrin, attivista di Freedom Flotilla, che si sarebbe dovuto imbarcare oggi per andare verso Gaza.

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    Il Comitato Sì Meazza presenta un esposto alla Corte dei conti contro il nuovo stadio

    Non è arrivata nessuna proposta alternativa. Quella presentata da Inter e Milan è rimasta l’unica offerta per l’acquisto dello stadio di San Siro e delle aree vicine al “Meazza”. Il Comune di Milano lo ha comunicato, alla mezzanotte del 30 aprile, alla scadenza dell’avviso pubblico per la raccolta di manifestazioni d’interesse. Un esito prevedibile, dal momento che la finestra è rimasta aperta per poche settimane. Ora proseguiranno i lavori della Conferenza dei servizi, già iniziati quando potevano arrivare anche altre proposte. Il fronte di chi si oppone ai piani dei due club e a come la giunta comunale sta gestendo la vicenda tenta ancora di interrompere il percorso avviato. Oggi il comitato Sì Meazza, dopo aver già fatto un esposto alla Procura, ha inviato alla Corte dei conti una segnalazione perché indaghi per danno erariale, chiamando in causa il Comune. Luigi Corbani del comitato Sì Meazza spiega perché ha depositato questa segnalazione.

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    1) Gaza senza cibo da due mesi. Il blocco israeliano agli aiuti continua indisturbato mentre la fame dilaga tra la popolazione. Nella notte colpita con droni la nave della Freedom Flotilla, che voleva portare aiuti nella striscia. (Sami Abu Omar, Simone Zambrin - Freedom Flotilla) 2) Guerra in Ucraina. Secondo le Nazioni Unite la situazione lungo il fronte è peggiorata da quando sono iniziati i negoziati per il cessate il fuoco. In esteri la testimonianza da Sumy. 3) Germania, i servizi segreti classificano Afd come partito estremista. I leader del partito rispondono: azione politica, ci difenderemo. (Alessandro Ricci) 4) L’effetto Trump sulle elezioni nel pacifico. Domani Australia e Singapore al voto. In entrambi i casi i dazi americani hanno ribaltato i sondaggi. (Lorenzo Lamperti) 5) Mondialità. La partita sul clima si gioca tra Usa e Cina. (Alfredo Somoza)

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