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Hallberg e la New York delle “utopie perdute”

Città in fiamme (Mondadori, 1024 pagine, 25 euro, traduzione di Massimo Bocchiola) ha avuto, sin da quando era ancora in fase di abbozzo, il destino di romanzo “inevitabile”. A Garth Risk Hallberg, che appunto l’ha scritto, la casa editrice Knopf ha versato un anticipo di due milioni di dollari: il più alto mai offerto a un esordiente.

Eppure la fase dell’ideazione e della scrittura non sono stati facili. “Pensavo: a chi potrà mai interessare un romanzo di centinaia di pagine di un autore che nessuno conosce?”, ci dice Garth Risk Hallberg. E invece Città in fiamme è stato, negli Stati Uniti, il debutto letterario di cui si è più parlato negli ultimi anni.

Al centro della storia c’è un fatto di cronaca: il colpo di pistola sparato a Central Park contro una ragazza, Samantha Cicciaro, attirata a Manhattan dalla scena punk del periodo. Mentre la ragazza giace nel suo letto di ospedale, in coma, si intrecciano le vicende di decine di personaggi, più o meno importanti nell’economia del romanzo: il padre della ragazza, in crisi professionale; Sam, il giovane teenager asmatico che esce con Samantha; Mercer, il gay nero che vuole diventare scrittore – e che trova il corpo di Samantha a Central Park; il suo compagno, William, eroinomane ed erede della dinastia degli Hamilton-Sweeney. Le loro storie, e quelle di molti altri, convergono verso un unico, grande evento collettivo: il black-out di New York dell’estate 1977.

La città è del resto la vera, grande protagonista di questo romanzo. East Village, il South Bronx, Hell’s Kitchen: Hallberg non risparmia al lettore nulla della New York devastata da crisi economica, criminalità, eroina. Ci sono le strade coperte di graffiti e disseminate di macchine bruciate e di edifici sventrati e di un senso di “anarchia amara e utopia fallita“, come dice uno dei personaggi. Ma c’è anche una città percorsa da un’umanità ribollente, dalla rivolta politica e dai movimenti artistici, dal punk al rock alla poesia d’avanguardia. “Le città sono spazi aperti, in perenne trasformazione. Non c’è vita, non c’è movimento, se non c’è anche il rischio e lo sporco”, spiega lo scrittore.

In effetti, Hallberg ha cominciato a pensare a questo romanzo negli anni successivi all’11 settembre, quando il dibattito tra libertà e sicurezza, tra ordine e diritti era più forte. La decisione di ambientarlo negli anni Settanta, spiega, è però venuta naturale, perché “quelli sono stati anni di profonda crisi, in cui si intuivano i segni di grandi possibilità, di una sperimentazione straordinaria in termini artistici ed esistenziali“. In seguito, sarebbe venuta la crisi dell’AIDS, quindi gli effetti di un liberismo che ha travolto la città, fecendola diventare un luogo più sicuro ma anche meno vitale.

Con alcuni limiti – non tutti i caratteri, per esempio la sorella di William, Regan, il marito infedele Keith, il detective e un tipo di giornalista scrittore che sembra modellato su Gay Talese, appaiono perfettamente riusciti; talvolta il passaggio dalle parti dialogate, di azione, al monologo interiore, è un po’ prevedibile, e gli stessi monologhi non illuminano la voce dei personaggi, bensì quella lirica e spesso nostalgica dell’autore – con alcuni limiti, Città in fiamme rivela uno scrittore di grande talento, dalle ambizioni vaste e dalla fiducia sconfinata nella capacità della letteratura di divertire, raccontare la società, trasformare. Con un occhio al Falò delle vanità, il libro di Tom Wolfe sulla New York degli anni Ottanta, e uno al vasto affresco sociale di Casa desolata di Charles Dickens – ma anche con echi evidenti a Underworld di Don DeLillo – Garth Risk Hallberg costruisce un’epopea caotica, disordinata, una cacofonia di voci e storie che raccontano l’eterna ansia americana su denaro, race e potenza delle illusioni.

Ascolta l’intervista a Sabato Libri di Garth Risk Hallberg

Garth Risk Hallberg

  • Autore articolo
    Roberto Festa
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    L'abbiamo scoperto con l'EP "Somewhere only we go" e oggi a Volume abbiamo avuto modo di conoscere meglio la storia di questo cantautore nigeriano, che si è poi formato musicalmente in Ghana: "Nel corso degli anni le nostre musiche si sono fuse: l'highlife ghanese, il palm-wine, il folk di Kumasi, il suono contemporaneo della chitarra. Ho potuto unire questi due mondi, mescolandoli con le radio occidentali che ascoltavo da ragazzo". Il risultato è un folk pop pieno di anima e di profondità: "Il mio obiettivo non è solo una carriera internazionale, ma costruire qualcosa in Africa. Voglio creare una struttura che funzioni per artisti come me, gente con una chitarra o un tamburo, artisti contemporanei che non hanno modo di raggiungere il loro pubblico". Ascolta l'intervista di Niccolò Vecchia a Tommy WA.

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    Teatro. La rivoluzione delle "piscinine" milanesi vista da due piccioni in crisi esistenziale Al Teatro della Cooperativa, a Milano ha debuttato in prima nazionale "Lo sciopero delle bambine", in scena Rita Pelusio e Rossana Mola di PEM Habitat Teatrali, compagnia che porta avanti una ricerca artista che declina contenuti civili e ironia. Lo spettacolo, con la regia di Enrico Messina, racconta una storia avvenuta a Milano nel 1902, quando le “piscinine”, che in dialetto meneghino significa “piccoline”, bambine, tra i sei e i tredici anni, che lavoravano senza diritti, sfruttate e sottopagate, ebbero la forza di scioperare e, per cinque giorni, fermare l’industria della moda della città. A raccontare la vicenda delle piscinine in scena sono due piccioni, due creature che abitano le piazze, le cui parole rispecchiano lo sguardo dei contemporanei, spesso stanchi e disillusi davanti alle sfide della storia. Nella trasmissione Cult Ira Rubini ha intervistato l’attrice Rita Pelusio.

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