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Il «Consenso di Hangzhou»


Prima che arrivi il comunicato conclusivo, è già circolata una bozza che, salvo aggiunte o tagli fatti in extremis, dovrebbe rispecchiare le scelte finali e la filosofia che le ispira: i giochi veri si fanno nei mesi precedenti al summit finale, nella kermesse conclusiva si limano le asperità e si esce con un comunicato che stia bene un po’ a tutti. In omaggio alla Cina che voleva fare del «suo» G20 un grande evento, vi si parla pomposamente di un «consenso di Hangzhou» e di una «nuova Rivoluzione Industriale».
La parola chiave è «crescita comune e coordinata». Il G20 la vuole «sostenibile e inclusiva», e la chiave di questa «nuova Rivoluzione Industriale» è riconosciuta un po’ da tutti nell’innovazione. Altrimenti detto, mentre si reitera il tormentone sulla necessità di industrializzare l’Africa, si afferma anche che il punto nodale per una crescita di tutti è costituito in realtà dagli investimenti nell’economia informatica, nonché dalla soluzione che si darà al digital divide e al gap di competenze che dividono il mondo sviluppato da quello in via di sviluppo. È l’effetto Cina, che in questo consesso gioca il ruolo sia di superpotenza sia di capofila degli Emergenti.
Collegato a questo tentativo inclusivo, c’è l’affermazione di voler riformare la governance globale, altro pallino dei cinesi. Come? Si proclama di voler dare più spazio alle economie emergenti negli organismi internazionali come il Fmi e la Bm, misura finora avversata dal Congresso Usa. E soprattutto si cercherà di superare l’ideologia del rigore e della stabilità monetaria a tutti i costi, a favore di politiche fiscali un po’ più espansive. Questo ultimo punto è il lascito dell’amministrazione Obama, in dirittura d’arrivo, e bisognerà vedere come lo prenderanno i tedeschi, severi guardiani dell’austerity, che ospiteranno proprio il prossimo G20 del 2017, ad Amburgo.
L’intento dell’inquilino della Casa Bianca è anche quello di rendere irreversibile per il proprio successore una politica economica moderatamente espansiva. Lo stesso Matteo Renzi ha ieri fiutato l’aria e affermato durante i lavori che «è importante che le riforme […] si calino nella realtà quotidiana delle persone», dato che esiste «una crescente sensazione di sfiducia da parte dei cittadini, in particolare delle classi medie, nei confronti della finanza». Insomma, le liberalizzazioni spinte chiedono anni, forse non è il caso di forzare troppo la mano con i vari TTIP e via dicendo. La direzione è quella – chi pensa che il TTIP sia defunto non dorma sonni tranquilli – ma prima costruiamo il consenso, diamine.
I potenti del mondo intendono quindi lanciare una nuova fase di maggiore coordinamento tra le economie. È in questo senso passata la linea cinese ribadita ieri dal presidente Xi Jinping nel suo discorso di benvenuto: il G20 non dovrebbe più occuparsi delle emergenze, mettere cioè una pezza ai problemi della globalizzazione e chiudere la stalla quando i buoi sono scappati; bensì divenire un vero e proprio organismo di pianificazione a lungo termine.
È, questo, un vero e proprio must nella visione diplomatica cinese: parlare di ciò che unisce ed eludere ciò che divide. Affrontare insieme la crescita comune e lasciare le questioni spinose alle relazioni bilaterali. Tra queste ricordiamo i diritti umani, il cyberspionaggio, le tensioni nel Mar Cinese Meridionale, la questione del sistema missilistico Thaad che la Corea del Sud ha installato sul proprio territorio in collaborazione con gli Usa. Su tutti questi oggetti del contendere, Xi Jinping e Obama si sono trovati divisi, ma hanno invece ratificato l’accordo di Parigi sul clima che da oggi, con l’adesione dei due maggiori inquinatori planetari, avrà più possibilità di fare progressi.
Comunanza di vedute anche sulle cosiddette «guerre monetarie»: Pechino e Washington hanno dichiarato di rinunciare alla svalutazione competitiva delle proprie valute. Salvo imprevisti piuttosto clamorosi e fragorosi, ad Amburgo Xi Jinping e la Merkel ci saranno ancora; Obama sicuramente no.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato su China Files
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    Gabriele Battaglia
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