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La fucilazione di Benito Mussolini

Un giorno da ragazzo chiesi a mio padre Roberto perché i partigiani avessero scelto di giustiziare in tutta fretta Benito Mussolini e gli altri gerarchi catturati, invece di istruire un processo pubblico come quello di Norimberga, dove le colpe e i crimini dei nazisti erano state esposti di fronte non solo all’intero popolo tedesco ma anche alla comunità internazionale dei paesi che avevano sconfitto Hitler, e all’intero mondo. Fu un salutare lavacro delle colpe che il processo per un verso svelava, per l’altro puniva, coinvolgendo anche i sensi di colpa di tutti i tedeschi, facendoli emergere. Non sarebbe stato meglio anche in Italia squadernare il fascismo coram populo di fronte  a una giuria popolare costituita/designata dal CLN (Comitato di Liberazione Nazionale), in modo che l’intera comunità nazionale e ogni cittadino/a potesse farci i conti, col regime e con la propria coscienza, con la propria adesione al regime, perché furono in molti a indossare la camicia nera?

Roberto rispose secco: perché se non lo avessimo ammazzato, oggi sarebbe in Parlamento. Il mio babbo era un dirigente del PCI, militante comunista dalla seconda metà degli anni ’30, per cui capii che la sua risposta veniva dal Partito che magari in pubblico la infiorettava, ma insomma questo voleva dire: esisteva la possibilità che il dittatore seppure abbattuto potesse rientrare nel gioco politico subito dopo la Liberazione, e questo andava impedito a tutti i costi. Nonché credo che molti pensassero anche a una funzione pedagogica del tirannicidio. E d’altra parte Almirante, repubblichino notorio, non aveva forse fondato l’MSI e non era forse deputato di quel partito sedendo nel Parlamento della Repubblica nata dalla Resistenza? Così come Togliatti aveva decretato l’amnistia per la stragarande maggioranza dei fascisti incarcerati.

Mio Padre entrò nel PCI clandestino in un modo che merita di essere raccontato, e di cui venni a conoscenza il giorno del suo funerale, quando un suo amico a me fino ad allora sconosciuto venne, presentandosi compitamente: io sono Vladimiro un amico carissimo di Roberto. Era assai emozionato, e raccontò. Quando il tuo babbo e io eravamo ragazzi, trafficando con una radio a galena ascoltammo Radio Mosca dove un tale Ercoli parlava di Marx e Engels, e lo faceva così bene che ci appassionò. Diceva le parole che ci mancavano, libertà, uguaglianza, rivoluzione, comunismo, proletari di tutto il mondo unitevi, e che potevamo fare qualcosa contro il fascismo. Tutti e due venivamo da famiglie che non erano fasciste, piuttosto di tradizione socialista anche se, diciamo, un socialismo silenzioso. Roberto poi aveva un nonno mazziniano e parecchio antifascista, che nella sua osteria in campagna si ritrovavano tutti i “sovversivi” e “dissidenti” delle colline intorno a Bertinoro, e quando i fascisti andarono per bastonarlo dovettero battere in ritirata con la coda tra le gambe. Così ci venne in mente di provare a leggere questo Marx – Engels, ascoltandolo alla radio pareva uno solo. Io avevo uno zio direttore della biblioteca comunale di Cesena, e andammo. Solo che quando facemmo la nostra richiesta lui sobbalzò, ci fece segno di tacere, poi ci portò da una parte dicendoci: ma siete matti, sono autori proibiti, si può finire in galera! E stava per voltarci le spalle quando Roberto disse: ma li avete? Si, stanno in un armadio chiuso col lucchetto. Può farceli vedere? Non sapevo cosa avesse in testa tuo padre, era una testa matta, però anch’io insistetti, e mio zio piuttosto che tenerci lì che potevamo dare nell’occhio, ci condusse nella stanza dove erano. Dopo uscimmo, e Roberto fa: una di queste notti torniamo, entriamo dalla finestra, rompiamo il lucchetto e prendiamo uno o due del libri. Così fecero, e fu la prima di una lunga serie di azioni illegali/antifasciste. Lo leggevano di sera sotto i lampioni del viale della stazione, era l’Antiduhring di Engels (e capii perché fosse stato il primo libro marxista che mio padre mi mise in mano quando avevo quattordici anni, una palla infinita ma tant’è). Ben presto però dal leggere passammo al fare. Riempivamo delle bottigliette di profumo vuote con della polvere nera, mettevamo una miccia accendevamo e lanciavamo. All’inizio non esplodevano mai, poi ci siamo messi di buzzo buono e cominciarono a saltare. Dopo una trafila trovammo anche un contatto con un comunista e entrammo nel Partito. Dove siamo stati insieme fino al 1956, sempre amici, uniti come le dita di una mano. Quando i carri armati sovietici entrarono a Budapest contro gli operai, io non lo sopportai e uscii, iscrivendomi al PSI. Roberto mi tolse il saluto – senza il Partito non si va da nessuna parte ripeteva- e per anni non ci siamo visti, finché da vecchi ci siamo ritrovati e ci volevamo sempre bene. Bah adesso lui non c’è più, mi ha lasciato qua da solo. Cosa faccio io? Commosso lui, commosso io ci siamo salutati. Così ho scoperto un pezzo della storia di mio padre che non conoscevo, perché Roberto, come l’Adria mia madre anche lei comunista all’incirca negli stessi anni, era sempre stato piuttosto schivo e riservato sulla sua militanza. Son cose di cui non si parla se non, forse, coi compagni più fidati. Neppure sessanta anni dopo.

Ecco, ogni 25 Aprile mi vengono in mente episodi della vita dei miei, comunisti partigiani e proletari, l’Adria operaia alla Callegari di Ravenna, Roberto operaio all’Arrigoni di Cesena.

  • Autore articolo
    Bruno Giorgini
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