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Fabrizio De André, cosa ci spinge ancora oggi ad andarlo a trovare?

Fabrizio De André al cimitero di Staglieno

Di Fabrizio De André, cremato 21 anni fa, non rimane che di tangibile un posto nella marmorea cappella a Staglieno, il cimitero monumentale di Genova posto sulle le colline, verso il cielo azzurro che ripete infinito il primo splendore del mare.

Siamo venuti dal Belgio a Genova, attraverso una notte intera, seguendo come una cometa il bianco della luna piena. Si arriva con un volo a Bologna. Da Bologna, al mattino presto, un treno per Voghera. Poi Genova. Nel cammino annunciamo che cosa andiamo a fare, a trovare la cenere di un defunto, e tutti approvano, sorridono, si scusano: “Non sapevo che fosse oggi, a me piaceva. Aspetti, le do qualche biscotto per il viaggio”.

Che cosa ci ha lasciato Fabrizio De André, oggi? Che cosa ci spinge, davvero, ad andarlo a trovare?

È sabato e a Staglieno, una città mortuaria ma viva di gente, sembra sdrammatizzarsi col viavai: chi ramazza una cappella perché, dice, sta per arrivare un nuovo inquilino, chi va già a grandi passi verso l’autobus per rientrare a casa, chi viene per lavoro a rinfrescare qualche intonaco. All’entrata mi offrono fiori, un caffè, l’acqua freschissima del rubinetto di Genova.

Chiedo timidamente del campo 22 come se ci dovessi visitare un parente, e un uomo dal ciuffo lungo, l’occhio vivo e l’accento inconfondibile mi consiglia di passare a salutare anche Fabrizio De André, che – mi dice quasi strizzandomi l’occhio – è proprio lì a fianco a quel che cerco.

Un po’ per il freddo, un po’ per i maestosi cipressi pacifici, un po’ per i vasi di fiori, rose bianche e rosse e blu che qualcuno ha già portato all’interno, è difficile rimanere a lungo immobili nella tristezza. “È Dori” mi dice la vicina di tomba “le ha portate ieri. Di solito viene nel pomeriggio”.

Chi si avvicina al settore con passo più timido degli altri, spesso finisce proprio lì davanti: si riconosce in chi va a un anniversario un’intenzione diversa, più insicura, eccezionale rispetto ai gesti di manutenzione consueta. Chi arriva è silenzioso, ma cerca i volti degli altri e ci si sorride, ci si conosce, e proprio al cimitero ci si trova a pensare e a parlare di vita.

Il primo ad arrivare è Marcello, genovese e sessantenne, l’aspetto gioviale alla Brassens, che è arriva ogni anno sempre alla stessa ora a salutare chi ha scritto “la colonna sonora della sua vita” e che incastra due rose, una rossa e una blu come la sua sciarpa del Genoa, nella fessura della porta. Mi sorride e riparte e io penso che noi, i contemporanei di De André, che lo abbiamo conosciuto da vivo e abbiamo visto immediati i riferimenti storici delle canzoni, senza avere altro ostacolo che la fatica di decifrare i testi, siamo gli unici a conoscerlo in modo autentico, quindi gli unici ad amarlo tanto, e saremo sempre di meno.

Vengo smentita un attimo dopo da Mario, calabrese veneziano e animatore di fan club, il quale, statistiche alla mano, mi mostra che oltre la metà dei suoi Instagram follower ha meno di 24 anni. Mi spiega che le donne di Via del Campo sono tre, e che in Andrea… e io non voglio sapere, e mi accorgo che se tutti noi pellegrini condividiamo, certo, una stessa fonte di vitalità e in fondo lo stesso perno di speranza, ognuno di noi ha una sua versione privata del dialogo con l’autore, una sfumatura diversa e individualmente “autentica”, e che è bene che le cose restino in questo modo.

Intanto, qualcuno ha deposto tre sigarette, qualcuno due spighe di grano, e due signore (le grandi borse del mercato al braccio, presto le riempiranno, accennano di passaggio un saluto alla cappella come tra conoscenti su una spiaggia.

Resta un ragazzo dalla barba rossa, a lungo con gli occhi bassi. È Daniele, da Napoli, e mi sussurra gentile porta tulipani perché i papaveri non li ha trovati. È figlio di ferroviere, e ha compiuto per venire qui quello che è il suo ultimo viaggio in treno gratis, perché proprio oggi compie 21 anni. E quasi si scusa: “È un brutto giorno per il compleanno”. Ma ci guardiamo e sappiamo che invece è proprio un bel giorno per celebrare la vita. Quella stessa forza che, in brani di De Andrè anche meno noti e anche segnati inevitabilmente dal tempo, è la chiave per sciogliere dilemmi attualissimi: il coraggio di scegliere il proprio cammino individuale per esempio, e di arrivare a farlo nelle circostanze poco eroiche di ogni giorno, senza lasciarsi andare mansueti a seguire quel che troviamo come dato, o che ci viene altrimenti costruito tutto intorno – in una parola, pensare.

Voltiamo insieme le spalle alla cappella perchè ci chiama fuori il sole. Daniele ed io abbiam forse capito che visitare Staglieno, oggi, può avere un significato. Di far entrare in risonanza il ricordo diretto di una felice, se tormentata, storia individuale con quanto in noi resta educato, condizionato, formato da quell’individuo e dai suoi stessi riferimenti, e di ripartirsene certo ancora confusi e soli, ma con il fardello leggero e l’idea un po’ più chiara che son questi i principi nostri – espressi in modo mutevole, e che torneremo allor presto a percepir di nuovo – con cui possiamo restare e sorridere oggi nel mondo.

di Margherita Redaelli

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