
Emilio Fede è stato il volto tra i più popolari, e populisti, della formidabile macchina della propaganda berlusconiana. Un dispositivo che aveva anche le sue diramazioni colte ed elitarie, ma che nell’essenza si fondava sul potere della televisione che tutto sdoganava e livellava verso il basso. Ed Emilio Fede ne fu punta di diamante.
Fede interpretò il populismo nella chiave del giornalismo aggressivo e manipolatorio. Rese uno spettacolo che solleticava le pance degli italiani l’inchiesta tangentopoli mandando Paolo Brosio a rischiare di farsi investire dai tram davanti a Palazzo di Giustizia a Milano. Inventò l’uso di storpiare i nomi degli avversari di Berlusconi, per umiliarli – come i leader del G8 di Genova Agnoletto e Casarini che diventarono Agnolotto e Casareccio – una pratica che poi venne copiata dai suoi discepoli che hanno continuato il format, interpretato magistralmente da lui, del giornalismo fatto con l’intenzione di distruggere il nemico.
Informazione militarizzata al servizio del capo. Un telegiornale come una trincea, avanguardia di quel populismo che ha rappresentato la base per le ulteriori derive vissute dal paese nel dopo Berlusconi. Poi vennero gli anni del declino, della fine triste, il rapporto con Lele Mora, le ragazze delle “cene eleganti” ad Arcore, il caso Ruby, la condanna per favoreggiamento della prostituzione. E la fine. Solo.