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Egitto, un carcere a cielo aperto

L’Egitto è un carcere a cielo aperto. Lo abbiamo scoperto in questi mesi dolorosi di fronte all’uccisione di Giulio Regeni. Abbiamo aperto gli occhi improvvisamente. Eppure gli anni del regime di Al Sisi sono contraddistinti sin dal colpo di stato del 2013 da una scia interminabile di sangue.

Le ONG egiziane, i cui membri rischiano la vita ogni giorno, raccontavano da anni l’incubo di morte che si è diffuso nel paese.

Raccolgono documentazioni, testimonianze, particolari su sparizioni, da casa o dal posto di lavoro. I più fortunati riemergono in qualche carcere segreto nei dintorni del Cairo. Mentre subiscono questo calvario i loro parenti non hanno nessuna informazione.

Ma noi che ci stiamo soffermando per alcuni istanti ad ascoltare il gorgo in cui è caduta la popolazione civile egiziana, vediamole insieme queste denunce. Solo nel mese di febbraio di quest’anno secondo Elnadeem, il centro di assistenza e riabilitazione egiziano per le vittime di violenze e torture, sono sparite 155 persone. I morti invece sono stati 75. Uccisi dalla polizia perché erano armati o, in molti casi, semplicemente per un diverbio con chi indossa la divisa. Nel bollettino di guerra è incluso anche il nome di Giulio Regeni, il ricercatore italiano. Otto i decessi nei luoghi di detenzione. Ben 77 i casi confermati di torture; 44 di mancate cure e 43 aggressioni da parte delle autorità. Tutto questo solo nel mese di febbraio, il più corto dell’anno.

Ma le denunce erano all’ordine del giorno anche in passato. Ad esempio nel luglio dello scorso anno, in cui Human Rights Watch aveva diffuso su tutti i media internazionali più importanti, i dati del pugno di ferro con cui il regime di Al Sisi insieme ai militari dirige il paese. Dal 2013, dice il rapporto dell’organizzazione, più di 40 mila persone sono finite in galera. Di questi la grande maggioranza sono sostenitori dei Fratelli Musulmani del deposto presidente Morsi, ma ci sono anche attivisti legati ai movimenti per la democrazia. Poco prima a giugno un’altra organizzazione indipendente, Freedom for the Brave aveva documentato la sparizione di 164 persone a partire da aprile del 2015. Di queste alcune decine hanno fatto ritorno a casa. Arrivano da un inferno che raccontano solo sottovoce, ma le loro parole si diffondono velocemente. Al regime, così benvoluto dagli Stati Uniti come argine potente a quella che definiscono la deriva islamista, serve per diffondere il clima di terrore in cui è avvolto l’Egitto.

Così succede che anche per caso di passaggio per uno scalo all’aeroporto de Cairo, come è capitato a noi la scorsa settimana, si cominci a chiaccherare del più e del meno con una signora egiziana, di professione ingegnere. Dopo pochi istanti di convenevoli sui voli in ritardo, mi sta già presentando le foto dei 4 figli, il più grande di 12 anni, di cui va tanto fiera. E quando mi chiede la nazionalità, le si gela il volto. Abbassa la voce, si guarda intorno spaventata. Si raccomanda di non parlare con nessun uomo, moltissimi in abiti civili sono in realtà dei servizi segreti. Poi le cominciano a scendere le lacrime parlando di Giulio Regeni. “Noi siamo musulmani. Ma non degli assassini – dice – e il deserto qui fuori il Cairo e pieno di cadaveri di gente scomparsa nel nulla.

Le sue lacrime non si fermano: abbiamo paura – continua – appena ci permettiamo di dire qualcosa contro il governo, arriva la polizia e portano via qualcuno della famiglia. E’ così che viviamo”. Le sue parole finiscono con un abbraccio e scappa con l’ultima chiamata del volo per Dubai.

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Sparizioni in Egitto

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    Cristina Artoni
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    Verso la fine della manifestazione è arrivato Sigfrido Ranucci, quasi emozionato dalla solidarietà che ha trovato in questa piazza, dalla presenza di tante persone in piazza Santi Apostoli “per non farlo sentire solo” dicono i manifestanti con dei cartelli in mano “press” e la scritta “no bavaglio”. E “per proteggerlo” - dicono ancora. Una protezione anche democratica da parte delle persone per il suo lavoro di giornalista. Sul palco per più di un'ora si sono alternate tante voci, si sono sentite altre denunce. A presentare la manifestazione di oggi c'era un giornalista della Rai a cui qualche anno fa da questo Governo è stata tolta la sua trasmissione. Poi il caso delle denunce temerarie e poi l'impossibilità di approvare la Freedom Act. “Una libertà di stampa a rischio” aveva detto Elly Schlein qualche giorno fa, oggi anche lei era in piazza e ha ribadito le sue convinzioni. In piazza Santi Apostoli oltre a tanti giornalisti ci sono tutti i leader della sinistra e tante persone. Anna Bredice ha intervistato Sigfrido Ranucci.

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    1) Il vicepresidente degli Stati Uniti arriva in Israele per vigilare sulla tenuta della tregua a Gaza. La casa bianca teme che Netanyahu possa far saltare tutto. (Martino Mazzonis) 2) Torture, abusi e violenze. I prigionieri palestinesi tornano a casa e raccontano la loro detenzione. (Valeria Schroter) 3) Sarkozy va in carcere acclamato dalla folla e accompagnato dalla marsigliese e la classe politica francese innalza l’ex presidente da colpevole a martire. (Francesco Giorgini) 4) Stati Uniti, la distruzione della casa bianca per far spazio ad una sala da ballo è la rappresentazione plastica del processo di smantellamento della politica e della società americana portato avanti da Trump. (Roberto Festa) 5) Il Giappone ha la prima premier donna della sua storia. Ma questa non è necessariamente una buona notizia per le donne di un paese profondamente maschilista. ( Marco Zappa - Ca' Foscari) 6) Spagna, la rotta migratoria verso le Baleari è l’unica in crescita e infiamma la retorica razzista dei governi locali di destra. (Giulio Maria Piantedosi) 7) Rubrica Sportiva. Una delle vittorie più sorprendenti nella storia del calcio europeo. La squadra di un paesino svedese di 1200 abitanti vince il campionato. (Luca Parena)

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    Come nel film del 1959 da cui prende il titolo, il nuovo disco dei Bar Italia è un ritratto di musicisti ribelli che si muovono tra glamour e malinconia, ironia e caos. L’album arriva dopo un lunghissimo tour che ha visto la band londinese suonare oltre 160 date in meno di un anno. L’energia grezza di 'Some Like It Hot' è il risultato di due anni super eccitanti ma anche frenetici e molto duri: "cattura esattamente lo stato d’animo che avevamo durante le registrazioni, un flusso di emozioni positive e negative insieme” racconta la band ai microfoni di Volume. Ascolta l’intervista ai Bar Italia, a cura di Elisa Graci e Dario Grande.

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