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“È quasi sicuro: supereremo i +1.5°C nei prossimi 5/10 anni”: lo dice il climatologo Jim Skea

climatologo Jim Skea

Jim Skea è un po’ una superstar del mondo climatico. 72 anni, britannico, un background da fisico e una carriera da ricercatore nel settore energetico, dal 2023 è presidente del Gruppo Intergovernamentale delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, o IPCC. I rapporti prodotti ciclicamente dall’istituzione che Skea guida sono la summa di tutta la ricerca mondiale sul riscaldamento globale. Non solo dal punto di vista climatologico, ma anche delle soluzioni: transizione energetica, mobilità, alimentazione. Se il dibattito scientifico fosse un processo penale, l’IPCC sarebbe la Cassazione. Skea è al lavoro col suo team alla stesura del prossimo rapporto, previsto per il 2027. Nell’intervista realizzata per la trasmissione Il Giusto Clima da Lorenzo Tecleme si parla del superamento del limite dei +1.5°C, delle pressioni di Donald Trump, del ruolo dell’Italia nella ricerca scientifica e del futuro del clima terrestre.

Professore, partiamo dalle basi: cos’è l’IPCC?

L’IPCC è l’organismo delle Nazioni Unite che fornisce consulenza ai governi e al sistema ONU a proposito del cambiamento climatico e delle azioni che possono essere intraprese per affrontarlo. Siamo in attività dal 1988 e, in realtà, non conduciamo le nostre ricerche. Ciò che facciamo è valutare la ricerca condotta dalla comunità scientifica, sintetizzarla e metterla insieme a beneficio dei decisori politici. Questo è fondamentalmente il nostro ruolo. Tendiamo a lavorare in cicli piuttosto lunghi che durano fino a sette anni. Ora siamo all’inizio del nostro settimo ciclo in questo momento, e il nostro prossimo rapporto inizierà ad essere pubblicato nel 2027.

Andiamo all’ultimo rapporto pubblicato, il sesto. Dieci anni fa con l’accordo di Parigi si promise di mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto dei +2°C rispetto all’era pre-industriale, e possibilmente sotto i +1.5°C. Quanto siamo vicini a superare questi limiti?

Siamo molto vicini alla soglia di +1.5°C. La tendenza a lungo termine è forse poco sotto i +1.4 gradi al momento, ed è quasi certo che supereremo i +1.5 gradi di riscaldamento nei prossimi cinque o dieci anni. Ora, l’anno scorso – come anno singolo, poiché le temperature salgono e scendono di anno in anno – è stato effettivamente di 1.55°C più caldo rispetto all’era pre-industriale, ma come ho detto la tendenza media a lungo termine è un po’ più bassa, circa +1.4°C.

E su quali temi o domande di ricerca si sta interrogando la comunità scientifica del clima?

Vale la pena precisare che non esiste un’unica comunità scientifica del clima, perché tutti i tipi di scienza sono rilevanti per affrontare il cambiamento climatico. Per le persone che lavorano con la fisica del cambiamento climatico – per intenderci, come funziona l’atmosfera e come funziona l’oceano – penso che le grandi questioni al momento siano diverse. Primo, come si attribuiscono i singoli eventi meteorologici al riscaldamento globale a lungo termine? Secondo, come si può stabilire se una particolare tempesta, una particolare inondazione sia attribuibile al cambiamento climatico? Stanno facendo un buon lavoro su questo. Un’altra questione per loro è se possiamo far scendere di nuovo le temperature. Se superiamo i +1.5°C, possiamo riportare le temperature al di sotto del limite durante il ventunesimo secolo? È il cosiddetto overshoot: si eccede la soglia di +1.5°C per poi tornare indietro. E, francamente, gli scienziati del clima stanno diventando molto più bravi a proiettare il cambiamento climatico a livelli molto locali. Si scende al livello di pochi chilometri piuttosto che di interi continenti. Lì ci sono dei veri progressi!
Poi, per le persone che si occupano di ridurre le emissioni o di rimuovere l’anidride carbonica dall’atmosfera, penso che proprio la rimozione della CO₂ dall’atmosfera e la fattibilità delle tecniche per rimuoverla siano forse alcune delle aree chiave di incertezza. E infine, abbiamo un gruppo di scienziati che esamina gli impatti del cambiamento climatico sulle persone e sulla natura, e quali siano le opzioni per adattarsi a un clima modificato. E hanno molto lavoro da fare perché, francamente, non siamo stati in grado di misurare i progressi su questo. Abbiamo fatto molti meno progressi sull’adattamento persino rispetto alla riduzione delle emissioni. Quindi hanno anche loro molto lavoro da fare. Insomma, ci sono tante comunità scientifiche del clima – e sono tutte estremamente impegnate al momento.

Facciamo un passo indietro: parliamo del processo che porta ad un rapporto IPCC. A febbraio si è parlato molto del fatto che il governo degli Stati Uniti avrebbe chiesto ai suoi scienziati impegnati con l’IPCC di interrompere il proprio lavoro. Le chiedo se quella situazione si è risolta e, più ampiamente, in che modo l’istituzione salvaguardia la propria indipendenza rispetto alle pressioni politiche?

Beh, i rapporti dell’IPCC passano attraverso un sacco di fasi, e per la stesura di un singolo rapporto possono passare tre o quattro anni tra l’inizio dell’iter, il suo effettivo completamento e l’approvazione da parte dei governi. Il primo step è che i governi – i nostri governi, perché siamo un organismo intergovernativo – decidono quali rapporti produrre. E poi si passa a una riunione di definizione dell’ambito (o scoping meeting) dove gli scienziati si riuniscono per produrre una bozza di quello che il rapporto potrebbe effettivamente essere. Ma a quel punto ancora non possiamo nemmeno iniziare a produrlo, il rapporto, perché la bozza dell’indice deve poi andare ai governi per approvarne la struttura, e potrebbero essere apportate delle modifiche. Solo dopo – forse dopo un anno, diciotto mesi dall’inizio del processo – possiamo iniziare a selezionare gli autori per redigere materialmente il rapporto. Gli autori sono nominati dai nostri governi e da alcune delle nostre organizzazioni osservatrici e selezionati dalla leadership scientifica eletta dell’IPCC. L’orologio continua a ticchettare, e non abbiamo nemmeno iniziato a scrivere il rapporto. A questo punto, c’è una prima bozza del rapporto che viene inviata per la revisione da parte di esperti, cioè da parte di altri scienziati, e gli autori rispondono a ogni singolo commento – e credetemi, i commenti sono migliaia. E poi una seconda bozza del rapporto va in revisione da parte di esperti e governi. E, ancora, c’è quel processo in cui gli autori rispondono a ogni commento. E infine, gli autori produrranno un cosiddetto riassunto per i decisori politici, che sintetizza l’intero rapporto, e questo va ai governi in una sessione di approvazione della durata di una settimana in cui i governi e gli scienziati esaminano il rapporto paragrafo per paragrafo, frase per frase, parola per parola. L’obiettivo è ottenere un consenso completo tra i governi e gli scienziati su ciò che il riassunto dirà. E dopo tre o quattro anni – e probabilmente dopo essere rimasti svegli tutta la notte in mezzo a quella settimana per cercare di concludere – avremo un rapporto IPCC. Quindi ci vuole un po’ per farlo. È un processo elaborato, ma a causa del rigore del processo che attraversiamo, i rapporti dell’IPCC godono della fiducia genuina di tutti. Nessuno può tornare indietro sulle conclusioni, dopo tutto questo.

Restiamo sul processo. Da anni si parla della necessità di una riforma delle COP, cioè gli incontri negoziali dell’ONU sul clima. Lei ritiene che ci sia bisogno anche di una riforma dell’IPCC – per rendere il processo magari più veloce o più indipendente – o al contrario il funzionamento attuale fa già la sua parte?

Diciamo che possiamo sempre migliorare il modo in cui facciamo le cose. Penso che lo stiamo costantemente valutando. In ogni ciclo dell’IPCC c’è questa sorta di pratica consolidata in cui i governi possono rivedere i principi, le procedure con cui operiamo. Ma lì non credo ci sia stato alcun interesse a cambiare il processo di base: ovvero, la selezione degli autori, la prima bozza, la seconda bozza, i processi di revisione e il processo di approvazione a volte molto doloroso che attraversiamo alla fine. Perché ci sono molti organismi scientifici là fuori, ma l’unicità dell’IPCC sta nella collaborazione tra scienziati e governi. Sono sicuro che sia un processo doloroso e lungo, ma il risultato è che gli esiti sono considerati affidabili da tutti. E non credo ci sia molto interesse a tornare indietro sui principi base del processo.

Qual è il ruolo dell’IPCC nei negoziati della Cop30 e cosa deve uscire fuori da questo incontro perché la comunità scientifica torni a casa soddisfatta?

Vogliamo assolutamente sottolineare una cosa: l’IPCC ha un mandato completamente diverso dalla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (che organizza le Cop, ndr). Non siamo parte di quel processo, siamo distinti. E certamente partecipiamo alla conferenza delle parti, le COP, e siamo citati costantemente dai governi. Sapete, quando fanno una dichiarazione, tutti citano l’IPCC. Non citano sempre la stessa parte dei rapporti IPCC ma certamente li citano [ride]. Siamo presenti da osservatori, come altre organizzazioni, piuttosto che come parte dei negoziati. Possiamo interagire con i delegati, diamo contributi agli eventi collaterali. Di solito io o il segretario dell’IPCC teniamo un discorso all’inizio della conferenza delle parti. Ma le Cop sono per i negoziatori, e noi abbiamo i nostri processi, e una certa dose di distanza, e penso che l’indipendenza sia in realtà molto importante.

Da noi non si parla molto dei climatologi, degli economisti, degli ingegneri che partecipano a questo dibattito globale sul clima. Ma molti italiani ne fanno parte.

Beh, devo solo dire, se avessi conosciuto in anticipo questa domanda, sarei venuto armato di statistiche sul ruolo degli scienziati italiani nell’IPCC [ride]. Ma credetemi, ci sono veramente molti scienziati del vostro Paese che operano nell’IPCC. Nell’ultimo ciclo ero co-presidente del gruppo di lavoro tre, che si occupa di mitigazione o riduzione delle emissioni, e avevamo molti scienziati italiani che contribuivano dalle loro università (Università di Venezia, Università Bocconi di Milano) e da altri posti. E posso dire che erano particolarmente rappresentati in termini di temi come l’economia e il cambiamento tecnologico. E un’altra cosa da segnalare: l’Unione Europea ha il suo centro di ricerca comune, ISPRA, nel Nord Italia. Abbiamo scienziati italiani che lavorano all’ISPRA e che sono anche coinvolti nell’IPCC, e alcuni che attualmente ricoprono anche alcune posizioni elettive nell’IPCC. Quindi sì, gli scienziati italiani sono presenti, e siamo molto felici di essere stati ospitati in Italia in diverse occasioni.

Non è un segreto che nel mondo del clima c’è pessimismo. Lei lo condivide o ha un messaggio di speranza per il nostro pubblico?

No, no, no, devo solo dire, voglio dire, la mia posizione su questo è che sono geneticamente ottimista. Quindi posso superare questo quesito. C’è un punto che voglio enfatizzare: certo, ci sono gravi rischi associati al cambiamento climatico, e stiamo facendo cose terribili al pianeta. Ma dobbiamo mantenere l’attenzione sul fatto che gli esseri umani hanno ancora il potere di influenzare il nostro futuro. Possiamo fare la differenza sia riducendo sostanzialmente le emissioni, se lo vogliamo, sia adattandoci al tipo di cambiamento climatico che è ormai inevitabile. Quindi tendo a non pensare a quanto sarà grave, ma a cosa si può effettivamente fare al riguardo. Affrontare la questione della speranza e del potere di azione umano penso sia veramente importante.

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