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Masekela, il Sudafrica e il Jazz

Alla fine degli anni Cinquanta in Sudafrica il jazz, già da decenni popolarissimo fra le masse nere inurbate, raggiunge un livello di maturità che colloca alcuni dei suoi protagonisti all’altezza del migliore jazz degli Stati Uniti. Uno di questi è il trombettista Hugh Masekela, nato nel 1939 a Witbank, vicino a Johannesburg.

Già prima della strage di Sharpeville, che nel marzo del 1960 rappresenta uno spartiacque per molti musicisti sudafricani, Padre Huddleston, un pastore protestante inglese che presta la sua opera a Sophiatown, sobborgo nero di Johannesburg, si adopera perché Masekela possa andare a studiare a Londra.

Ma il sogno di Masekela è la patria del jazz, e nel settembre del ’60 il trombettista è già negli Stati Uniti, dove – per breve tempo marito di Miriam Makeba – negli anni successivi raggiunge un grande successo come esponente di un easy listening di forte caratura jazzistica e originale negli umori sudafricani di cui è portatore. Nell’estate del ’68 il suo hit Grazing in the Grass batte in classifica Jumpin Jack Flash degli Stones.

A suggerirgli di non essere un semplice jazzman – in più in una scena americana che ne è piena – ma di mettere nella sua musica qualcosa di casa sua sono stati due trombettisti come lui, due musicisti che sono dei suoi idoli, Dizzy Gillespie e Miles Davis. Ma certo né la lontananza né il successo fanno dimenticare a Masekela il Sudafrica: con la discriminazione razziale, gli omicidi di Martin Luther King e di Malcolm X, le rivolte dei ghetti, gli Stati Uniti degli anni Sessanta gli ricordano anche troppo il Paese da cui si è separato.

Negli anni Settanta Masekela sente il bisogno di lasciare gli Stati Uniti e di tornare in Africa per riavvicinarsi alla sua patria, come in attesa degli eventi. Nel ’74 è uno degli ideatori dello stellare programma di concerti che si tengono a Kinshasa in occasione dell’incontro Mohamed Ali/Foreman.

Poi negli anni Ottanta, spesso insieme a Miriam Makeba, e anche negli show di Graceland di Paul Simon, Masekela è protagonista di esibizioni di forte valenza anti apartheid. Nell’87 il suo hit Bring Him Back Home si trasforma in un inno del movimento contro la segregazione: nell’88 Masekela è poi al Wembley Stadium di Londra per il megaconcerto per i settant’anni di Mandela, un evento che con i suoi 600 milioni di telespettatori rappresenta l’inizio della fine del sistema dell’apartheid.

Poi, dopo la caduta del regime di Pretoria, Masekela torna in patria, dove negli ultimi decenni non ha cessato di tenersi in contatto con le nuove tendenze della musica sudafricana, dall’hip hop alla house, e si è dedicato anche a iniziative sociali, in particolare a favore delle scuole e degli studenti di Soweto. E spesso intanto nelle sue esibizioni è tornato alla musica di Louis Armstrong e agli standard del jazz.

Con Masekela se ne va una delle maggiori personalità espresse dalla musica africana moderna: un musicista che ha conosciuto il grande successo nello show business e che ha praticato una musica di forte presa nel consumo, ma sempre mantenendo una encomiabile coerenza artistica e senza mai dimenticare le sue origini: il Sudafrica e il jazz.

  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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    Il trumpismo fa paura. L'autoritarismo trumpista ancora di più. A Pubblica la prima sintesi degli incontri alla Casa della Cultura di Milano per il ciclo "Autoritarismi in democrazia" (Osservatorio autoritarismo, Università Statale Milano, Libertà e Giustizia, Castelvecchi) di cui Radio Popolare è media partner (qui il programma https://www.libertaegiustizia.it/2025/11/21/autoritarismi-in-democrazia/). Ospite del primo incontro (22 novembre 2025) la filosofa Chiara Bottici, della New School for Social Research di New York. «Il clima negli Stati Uniti – ha raccontato la filosofa - è estremamente allarmante, estremamente preoccupante. Quando parlo di neofascismo non è un'esagerazione, non è un modo per dire "questi sono cattivi, Trump è autoritario"».

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