
Ha interpretato, segnato, rappresentato la Milano scintillante e internazionale, con l’emporio, i cartelloni pubblicitari, le sfilate, gli arredi e il caffè di lusso, la fondazione e il museo, fino alla prima squadra di pallacanestro della città, l’Olimpia da 17 anni di sua proprietà. Come quasi tutti i figli illustri di questa città arriva da altrove, da Piacenza, nel ‘49, col fascistissimo babbo e la mamma direttrice di colonia; studi al liceo scientifico Leonardo e poi tre anni di Medicina, il militare e il primo impiego alla Rinascente come commesso all’allestimento delle vetrine. Ritratto perfetto del timido self-made man, senza radici familiari nel tessile o industriali, diventa stilista quando la parola ancora non si usava. Come confesserà a Enzo Biagi, “E’ stato un puro caso, che mi sono occupato di moda. Così odiandola anche, fra l’altro”. Scevro dalla mondanità che creava, ha condotto una vita casa e bottega: i due compagni della vita, quasi sconosciuti alle cronache, sono il suo socio della prima ora (prematuramente scomparso) e quello attuale, collaboratore di sempre. Non si conoscono nemmeno le esatte cause di morte. Era il quarto uomo più ricco d’Italia, patrimonio stimato 12 miliardi, il gruppo Armani che controllava al 99,9% ne fattura 2,5 l’anno e da lavoro a quasi 9mila persone. E’ probabilmente l’ultimo cantore del fare milanese che in questa città ha costruito ed è restato, imprenditore prima di tutto. Le sue parole preferite erano: serietà, umiltà, impegno, lavoro. Peccato per quella inchiesta dell’aprile 2024 per caporalato che colpisce e sequestra la Armani Operations, proprio nel hinterland di Milano, per dei fornitori che producevano a 75 euro, in condizioni schiavistiche, borse vendute a 1800 euro. Il Gruppo Armani sanerà rapidamente, ma è il segno del declino generale dei tempi che scavalca i suoi interpreti.