Approfondimenti

Donald Trump. La vera posta in gioco

L’ex direttore dell’FBI, James Comey, continua a occupare le prime pagine dei media USA. Le pagine del suo libro A Higher Loyalty e l’intervista ad ABC News rappresentano infatti l’atto di accusa forse più feroce sinora pronunciato contro Donald Trump. Il presidente degli Stati Uniti – che licenziò Comey – viene paragonato ai boss della Mafia, descritto come un egotista maniaco che privilegia la lealtà nei suoi confronti rispetto ai principi della Costituzione; un uomo dispotico e disposto a mentire su tutto, cose piccole e grandi, che infanga il suo ruolo e rappresenta un pericolo grave per il futuro degli Stati Uniti.

La reazione di Trump, del suo circolo, dello stesso Republican National Committe è arrivata puntuale e prevedibile. Comey, nel migliore dei casi, viene descritto come un ex funzionario rancoroso nei confronti dell’uomo che lo ha licenziato; alcuni fanno notare che l’ex direttore dell’FBI punta non alla verità ma a vendere più copie del suo libro. E nella tradizionale scarica di tweet mattutini, domenica, lo stesso Trump ha bollato Comey con una parola più volte ripetuta, LIAR, bugiardo, aggiungendo che Comey passerà alla storia come il peggior direttore dell’FBI.

Non sarà comunque facile, per questa amministrazione, gestire il caso Comey. Nonostante le accuse e i tentativi di screditarlo, Comey conserva una rispettabilità e una attendibilità che sono il frutto di anni passati nell’FBI, sotto diversi presidenti, repubblicani e democratici. Prima davanti al Congresso, e poi nel libro e nell’intervista, Comey non si è lasciato andare a nulla che non possa essere sostanzialmente provato. Ha solo alluso al fatto che Trump, licenziandolo, abbia intralciato la giustizia (il presidente avrebbe cercato di bloccare l’inchiesta sul Russiagate). Ha di nuovo fatto balenare l’ipotesi che Trump possa essere ricattato dai russi per un video girato in un hotel di Mosca, in cui il futuro presidente si intratteneva con delle prostitute – un episodio contenuto nel rapporto che l’ex agente dei servizi britannici Christopher Steele preparò su sollecitazione del Democratic National Committe.

Separando i fatti dalle ipotesi, evitando di lanciarsi in speculazioni ma al tempo stesso offrendo una descrizione “dall’interno” del carattere e degli uomini del presidente, Comey può dunque costituire un serio imbarazzo per questa amministrazione. Tanto più che, nelle prossime settimane, l’ex direttore dell’FBI darà una serie di interviste – a CNN, Fox News, MSNBC – e viaggerà in 11 città americane per pubblicizzare il suo libro. Aspettiamoci nuove polemiche e nuovi veleni con la Casa Bianca al centro della tempesta.

Paradossalmente, non è però il caso Comey a preoccupare di più Trump. Comey è sì un fastidio importante, ma non ha portato, almeno sinora, alcuna novità capace di aggravare la situazione giudiziaria del presidente. La vera minaccia viene da un altro filone di indagine: quello che ha al centro l’avvocato personale di Trump, Michael Cohen. A Cohen, nei giorni scorsi, sono stati perquisiti uffici e abitazione privata e confiscati documenti personali, carte, files. E’ stato un evento davvero “sismico”, probabilmente senza precedenti nella recente storia politica americana. La giustificazione ufficiale è che gli agenti dell’FBI, su mandato dell’ufficio del procuratore del Souther District di New York, cercavano prove di avvenuti pagamenti da parte di Cohen a Stormy Daniels e ad altre donne che sostengono di avere avuto relazioni con Trump.

In realtà, a Cohen è stato confiscato molto di più: documenti che riguardano l’intera sua vita professionale, le sue transazioni finanziarie, i rapporti intrattenuti con clienti e amici. Cohen rischia molto: per il presunto passaggio di denaro alle donne che accusano Trump, l’avvocato potrebbe vedersi incriminato per frode bancaria, violazione della legge sul finanziamento elettorale, evasione fiscale. Ma non è tutto. Michael Cohen è da anni l’avvocato personale di Trump. E’ un amico di famiglia. E’ l’uomo che è entrato in affari con i figli di Trump. E’ la persona che ha presieduto a molti degli accordi e delle questioni che sono passati attraverso la Trump Organization. E’, in altre parole, l’uomo che forse più di ogni altro conosce come Trump ha costruito la sua fortuna.

Si spiega così la reazione di Trump alle perquisizioni su Cohen. Si spiegano così le minacce di licenziamento per Robert Mueller e per Rod Rosenstein (il numero due del Dipartimento alla Giustizia che ha firmato il mandato). Trump è infatti sempre stato chiaro. Il mandato di Mueller, lo special counsel che indaga sulla Russia, è limitato ai presunti legami tra la sua campagna elettorale del 2016 e Mosca. C’è però una linea rossa che Mueller e l’FBI non devono superare: quella che porta verso gli affari del presidente, verso gli interessi di famiglia, verso la Trump Organization.

E’ questo che con la perquisizione a Michael Cohen l’Fbi, su richiesta di Mueller e con la benedizione del Diprtimento alla Giustizia, ha fatto. Ed è questo che Trump non può e non vuole permettere. Indagare sui suoi affari, presenti e passati, è per lui molto più pericoloso rispetto alla stessa inchiesta del Russiagate. A dimostrazione di ciò, vi è la richiesta dello stesso Trump di poter visionare i documenti che sono stati confiscati a Cohen (richiesta che un tribunale americano ha in queste ore rigettato). Il presidente ha del resto sempre sospettato che, al di là del Russiagate, la vera intenzione di Mueller fosse quella di indagare sul suo impero. La cosa si sta puntualmente verificando. La posta in gioco, per tutti, si alza. Per Mueller e l’FBI si tratta di acquisire quanto prima gli elementi per inchiodare il presidente. Trump ha un solo obiettivo. Bloccare l’inchiesta.

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    Roberto Festa
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    L’esercito israeliano ha lanciato questa notte l’invasione di terra su Gaza City. Da ieri i carri armati sono entrati nel cuore della principale città della striscia, e i bombardamenti hanno colpito senza sosta strade, case, infrastrutture. Da questa mattina, i morti sono 89. Centinaia di migliaia di persone vivono ancora nella città. Migliaia di persone stanno invece cercando di fuggire, in un esodo verso un sud che non ha più spazio per ospitarli. Il servizio di Valeria Schroter.

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    1) “Gaza brucia di fronte al suo mare, testimone della sua tragedia”. L’esercito israeliano ha lanciato l’offensiva di terra sulla principale città della striscia. L’esodo in mezzo alle bombe. Quasi 90 i morti da questa mattina. (Valeria Schroter) 2) Israele come Sparta. Mentre l’ONU stabilisce che quello in corso a Gaza è genocidio, Netanyahu ammette l’isolamento internazionale e dipinge un futuro di autarchia e guerra permanente. (Anna Foa, Eric Salerno) 3) Gli Stati Uniti continuano a colpire il Venezuela. Trump punta a rovesciare il regime di Maduro con la scusa della lotta al narcotraffico. (Alfredo Somoza) 4) Cinquant’anni fa l’indipendenza della Papua Nuova Guinea. Il paese oggi è vittima della maledizione della ricchezza e rischia di finire ostaggio di un nuovo braccio di ferro tra occidente e Cina. (Chawki Senouci) 5) Spagna, l’estrema destra torna a riunirsi a Madrid. Il primo passo verso una grande alleanza di tutte le destre europee. (Giulio Maria Piantadosi) 6) Rubrica Sportiva. Julia Paternain, la maratoneta uruguayana entra nella storia vincendo la prima medaglia ai mondiali di atletica per il paese sudamericano. (Luca Parena)

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    “E’ stato bello rendersi conto che la figura di Woodie Guthrie è ancora molto viva anche fuori dagli Stati Uniti”, racconta Sarah Lee, nipote dell’icona folk americana. “Le problematiche di cui cantava lui ottant’anni fa sono ancora attuali”, riferendosi al tema dell’immigrazione e alla difficile situazione al confine con il Messico. Con la sua musica Woody Guthrie "affrontava un concetto molto basilare di umanità e speranza, ovvero il trattare le persone come persone, aiutandosi a vicenda nei momenti di difficoltà": lo stesso messaggio che ora le Guthrie Family Singers vogliono portare avanti. Ascolta l’intervista di Elisa Graci alle Guthrie Family Singers.

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