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Documentie e reliquie: il Museo della FIFA

Schermi giganti che mostrano anonimi calciatori che giocano nella periferia di una città africana, su una sconosciuta spiaggia brasiliana o su sgangherati campi da calcio che non hanno mai visto l’erba. E’ questa la prima immagine che colpisce il visitatore del FIFA World Football Museum: quasi 3mila metri quadri con cui la FIFA (Fédération Internationale de Football Association) omaggia il mondo del pallone illustrando come, ogni giorno, il calcio risvegli emozioni in tutto il mondo.

L’organizzazione che sta a capo del calcio mondiale ha già la sede a Zurigo e il museo voleva costruirlo nelle adiacenze: una collina lontano dal centro città. Una scelta che necessariamente avrebbe ridimensionato il grande parcheggio utilizzato dai visitatori dello zoo cittadino. Agli zurighesi questa idea non piaceva proprio e così la FIFA ha comprato uno stabile in quella che gli indigeni chiamano ‘piazza dei ticinesi’, perché qui una volta partivano i treni diretti al sud, verso il Ticino e l’Italia.

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All’ingresso il visitatore del museo (che aprirà le porte al pubblico il prossimo 28 febbraio), dopo aver superato lo spazio dedicato alle esibizioni temporanee (la prima sarà dedicata agli ultimi mondiali brasiliani), si trova nella stanza arcobaleno. Incorniciata dai video prima citati, una grande teca semicircolare raccoglie le 209 maglie delle nazioni affiliate alla FIFA ordinate secondo un criterio cromatico: si parte dal rosso, poi tocca al bianco, al verde, al blu e al giallo. La prima è la divisa dello Sri Lanka. L’ultima quella dell’Olanda.

Una timeline traccia una piccola storia del calcio. Anche qui esiste un anno zero, che non è la nascita di Cristo, ma il 1904: anno della comparsa della FIFA. Così c’è un bizzarro a.f. (avanti FIFA), le prime partite e i primi campionati in terra d’Albione, e un d.f. (dopo FIFA), tutto il resto. La timeline è nelle quattro lingue ufficiali della federazione calcistica: tedesco, inglese, francese e spagnolo (per la mancanza dell’italiano bisogna ringraziare gli olandesi che a suo tempo posero il veto con la scusa che al mondo c’è più gente che parla il dutch che non la lingua di Dante). A questo punto una grande scala scende in una sala chiamata Foundation: il sancta sanctorum del museo.

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Lungo la scala una colonna sonora si occupa di creare lo stato emozionale dei giocatori che scendono in campo. Per fare ciò è diffuso un rosario in 26 lingue che recita, con toni più o meno concitati, le esclamazioni tipiche di calciatori e tifosi: palla – fallo – tira – passa – goal… Confesso che non ho sentito la più classica: arbitro cornuto. In questa sorta di santuario del calcio ci sono mappe interattive e alcuni documenti originali, alcuni dei quali scritti a mano.

Le teche custodiscono oggetti di culto: alcuni fondamentali (la copia della coppa Rimet), altri quasi discutibili. Per esempio che bisogno c’era di metterci il fischietto usato da Collina nella finale del 2002?. Al suo posto ci avrei visto i parastinchi di Maradona: una vera e propria reliquia perchè con tutti i calci che ha preso probabilmente sono intrisi del sangue del Pibe de Oro.

La visita prosegue con la sezione dedicata ai vincitori della coppa del mondo e qui bisogna fare i complimenti ai curatori del museo. Ogni nazionale vincitrice di una edizione ha una teca tutta per sé dove non sono custoditi semplici feticci, ma oggetti e documenti che hanno una storia da raccontare. Non a caso grazie alla teca dell’Italia del ’34 scopriamo che la megalomania del Duce, oltre a un pallone chiamato ‘il federale’, aveva imposto la consegna di una coppa (la Coppa del Duce, appunto) che per altezza e volume voleva umiliare la mitica coppa Rimet.

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Ci sono poi alcune cabine per dei giochi interattivi dove provare a vedere se si è dotati di una vista migliore di quella di un arbitro, dove registrare con la propria voce la telecronaca della partita del cuore o dove cercare di emulare i balletti e le esultanze dei calciatori dopo un goal. E’ l’anticamera di quello che aspetta il visitatore al piano superiore, interamente dedicato ai giochi.

C’è tutto quello che la mente umana ha partorito per una partita virtuale di calcio: dai calcio balilla alla play station. E poi inni e fumetti. Per e i libri c’è una biblioteca con 4000 volumi a disposizione di ricercatori e studiosi. Ma come all’ingresso la sorpresa è che gli allestitori del museo hanno pensato di dedicare ampio spazio a chi ‘vive di calcio’ anche se non è una star.

Quindi c’è uno spazio espositivo dedicato a chi vuole che in mostra ci sia anche un oggetto che secondo lui rappresenta una storia meritevole di essere conosciuta. E’ il caso di Erick, un ragazzo tifoso dello Zurich, che ha voluto far esporre la sciarpa con cui ha seguito la sua squadra del cuore sino all’insperato sbarco in Champions League.

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Ma ci sono anche 10 grandi video di anonimi tifosi che raccontano la loro vita. Tra questi difficile non innamorarsi dell’avvocato Nelson Paviotti. Tifoso del Brasile, prima dei mondiali del ’94 giurò che se la sua nazionale avesse vinto il torneo per tutto il resto della vita avrebbe vissuto in un mondo tricromatico: giallo blu e verde, i colori della sua nazionale.

Al Rose Bowl di Pasadena il Brasile, battendo l’Italia ai rigori, divenne campione del mondo e da allora l’avvocato Paviotti veste solo giallo blu e verde, mangia solo cibi che abbiano quei tre colori e viaggia con una macchina tricolore. Non contento ha già pensato all’aldilà e per l’occasione si è comprato una bara giallo blu e verde.

E’ l’esaltazione della follia, un sentimento che viaggia a braccetto con il calcio. Ma una follia casta, fine a se stessa: lontana anni luce da quella interessata e corrotta che ha colpito alcuni grandi dirigenti della FIFA. Noi facciamo il tifo per l’altra. E siamo contenti che il nuovo museo di Zurigo la pensi come noi…

  • Autore articolo
    Claudio Agostoni
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